Report dal Kurdistan. L’ultima giornata

EfrinAbbiamo trascorso l’ultima giornata in Kurdistan tra Suruç e i suoi dintorni.

In mattinata abbiamo incontrato il sindaco di Suruç, che ci ha illustrato le problematiche specifiche di una municipalità curda come la sua, al confine tra Turchia e Siria, durante l’emergenza tanto quanto in generale.

Innanzi tutto ha ringraziato la missione internazionale per aver scelto di festeggiare un evento importante come il Newroz assieme al popolo curdo e per la forza e il coraggio che la solidarietà e la visibilità internazionale danno a lui e alla sua comunità.

Ha ribadito gli sforzi vani compiuti dalla municipalità per farci passare il confine ed ha letto e approvato il nostro comunicato del 21 e i suoi intenti: l’apertura di un corridoio umanitario tra Suruç e Kobanê è una priorità assoluta per consentire la ricostruzione e il rientro a casa dei profughi.

La questione della chiusura del confine, che noi stessi abbiamo verificato, c’è da circa due mesi e mezzo, cioè dalla liberazione di Kobanê. In precedenza era più facile sconfinare dalla Siria verso la Turchia, questo ha rappresentato una sfida, perché la popolazione di Suruç è aumentata notevolmente ed il governo turco non ha collaborato con l’amministrazione, tuttavia la municipalità curda e la popolazione si sono spese per offrire ai profughi la migliore accoglienza possibile.

Suruç è una città di 100mila abitanti e nei giorni dell’esodo è stata il primo rifugio per gli 80mila profughi in fuga da Kobanê. Ha accolto per quattro mesi 20mila persone nei campi e diverse migliaia di persone ospitate dai parenti nelle case private e nei depositi. Le due città, infatti, un tempo erano unite, ma gli accordi di Losanna hanno posto un confine che le ha divise in due stati diversi. I cittadini e le cittadine di Suruç hanno rischiato la vita in prima persona durante l’assedio di Kobanê anche solo per manifestare a favore dei loro fratelli al di là del confine: ben cinquanta persone sono morte a causa della repressone governativa in quei giorni.

La stessa ordinaria amministrazione è difficile per una municipalità curda: il comune è soggetto all’autorizzazione della prefettura, qualsiasi cosa intenda fare: spesso l’autorizzazione non arriva e si prova a operare sottobanco, ma la repressione non tarda ad arrivare. I comuni amministrati dall’AKP, invece, hanno la strada spianata per qualsiasi progetto e fondi a volontà. È facile, quindi, immaginare come questo scontro strutturale e impari tra autonomie locali curde e governo centrale turco si sia manifestato nei giorni dell’emergenza.

Durante i combattimenti, i feriti dovevano scegliere se rischiare danni permanenti e la vita o se venire arrestati per aver passato il confine. Per i boia dell’Isis, invece, c’era un intero reparto riservato in un ospedale di Şanliurfa.

A Suruç è presente, oltre ai campi della municipalità, un enorme, confortevole e semivuoto campo profughi governativo, dove vengono convogliati tutti gli aiuti degli stati esteri destinati a Kobanê, senza che questi controllino l’uso che se ne fa. È una sorta di campo-prigione fortemente militarizzato e, nonostante i profughi non conoscano la lingua turca, le lezioni nelle sue scuole si tengono in turco e in arabo, non in curdo. L’esercito non ha permesso nemmeno a una delegazione dell’ONU di interloquire liberamente con gli abitanti rispetto alle condizioni di vita nel campo. Il fatto stesso che gli aiuti per Kobanê vengano utilizzati per un campo vuoto rappresenta uno spreco, in più è scoppiato uno scandalo legato a un parlamentare dell’AKP di Şanliurfa, che ha fatto in modo di dare ai suoi parenti la gestione del campo e dell’enorme quantita di denaro legata agli aiuti che lì arrivano.

Il governo turco taglia la corrente nei campi curdi, non consente la distribuzione gratuita di farmaci e ostacola l’arrivo di aiuti umanitari internazionali, eppure i profughi li preferiscono al campo governativo. Ora l’emergenza è finita, i campi sono in via di smantellamento e più di 50mila persone complessivamente sono tornate a Kobanê, ma resta l’enorme problema dell’oggettivo boicottaggio del governo turco rispetto alla ricostruzione.

Il sindaco ci ha parlato della questione curda in generale, della storia del Kurdistan, paese diviso in quattro stati diversi, non democratici, dal 1945 e di fatto sottoposto a un embargo. Ci ha ricordato ancora una volta i problemi in territorio turco dovuti alla legge marziale in vigore dopo il golpe del 1980, ma non ha tralasciato la questione delle condanne a morte subite dai prigionieri politici in Iran, dove il movimento curdo è particolarmente soggetto al silenzio e alla clandestinità, e in Iraq, menzionando il massacro del 16 marzo 1988 da parte del governo di Saddam Hussein. Adesso l’emergenza è rappresentata dall’Isis in Siria, dove ai curdi fino a poco tempo fa venivano negati la cittadinanza e i documenti d’identità, e in Iraq, però il sindaco ha fatto notare come l’Isis sia stato fatto nascere in chiave specificamente anti-curda e si inserisca nel quadro di settanta anni di vessazioni, ai quali i curdi anni risposto con quarant’anni di resistenza. Il Rojava, autonomia giovane da difendere ed estendere, è il frutto di decenni di elaborazione politica: il caos generato dalla guerra civile in Siria, pur avendo colpito così duramente il popolo curdo, ha permesso di sperimentare quel modello di democrazia radicale nato dall’oppressione subita. I curdi sono stati vittime della discriminazione su base etnica, è a causa di quest’esperienza che hanno pensato a un modello inclusivo e multiculturale; i curdi si battono per l’uguaglianza in un Medio Oriente caratterizzato dall’inferiorizzazione culturale e dalla sostanziale esclusione dalla vita pubblica delle donne, per questo la loro democrazia radicale mette al centro le donne e la loro elaborazione politica. Il sindaco ci ha ringraziati ancora per la solidarietà e la vicinanza, che lui vede come una sorta di difesa delle nostre stesse radici, dato che quella terra è stata la culla della civiltà, estesa in Europa attraverso le migrazioni di 12mila anni fa. Il suo auspicio, così come il nostro, è che, attraverso il modello del Rojava, dal Kurdistan fiorisca una nuova civiltà.

La delegazione palermitana della Missione di osservatori internazionali ha consegnato la lettera dell’Assessore alla Cultura e alla Scuola del comune di Palermo, che propone un gemellaggio con le scuole di Suruç, mentre il sindaco di Santomenna (Sa) Massimiliano Voza ha donato venti chili di farmaci raccolti da Legambiente Campania, quella minima parte che è stato possibile trasportare in aereo, mentre il resto delle medicine è stato bloccato dalle autorita turche.

Nel pomeriggio ci siamo recati al culturale di Suruç, dove gli avventori hanno improvvisato un concerto con i bellissimi canti di lotta e resistenza curdi, molti dei quali dedicati a Kobanê, e nei villaggi di confine con la Siria, che ospitano diversi profughi.

A Misenterê abbiamo potuto visitare con estrema commozione il Museo dei Martiri dedicato ad Arîn Mîrxan, l’indomita combattente curda che all’inizio dell’assedio di Kobanê, pur di difendere la collina e di non permettere all’Isis di venire in possesso delle sue munizioni, accerchiata, decise di farsi saltare in aria, e a Qader Ortakaya, una compagna uccisa dall’esercito turco a novembre, mentre prendeva parte a una catena umana per chiedere l’apertura del confine. Il museo ospita le foto dei Martiri, una piccola biblioteca a disposizione della popolazione del villaggio e le locandine delle iniziative internazionaliste giunte da tutto il mondo.

Tanto a Misenterê quanto a Mesher abbiamo potuto confrontarci con gli abitanti. Abbiamo cantato e ballato con i bambini ed abbiamo ascoltato le testimonianze degli adulti, tanto desiderosi di far conoscere la loro storia al mondo. Ci hanno raccontato con dolore della vergognosa connivenza tra militari e governo turchi e Stato Islamico, di come a quest’ultimo fosse consentito di sconfinare per bombardare Kobanê, di come ai combattenti curdi fossero negate le cure mediche mentre c’era un costante passaggio di ambulanze destinato all’Isis. noi non siamo riuscita ad entrare a Kobanê, ma Kobanê è venuta da noi attraverso i racconti di chi da lì e scappato o di chi la guardava dall’altra parte del confine, preda di distruzione.

La cronaca del nostro viaggio finisce qui, nei prossimi giorni faremo un bilancio generale capace di mettere a frutto la nostra partenza, i rapporti stretti, le informazioni raccolte, ai fini di costruire una campagna di solidarietà che ci sembra sempre più indispensabile e urgente.

SILVIA CONCA

redazionale

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