La catastrofe umanitaria in Iraq

5525828-3x2-700x467Se tutto è comin­ciato quell’11 set­tem­bre del 2001, il bilan­cio della rea­zione di ciò che comu­ne­mente si chiama comu­nità inter­na­zio­nale è una cata­strofe di prima gran­dezza per l’umanità intera. Gli ultimi detriti della deriva sono i tre­mendi avve­ni­menti di que­sti giorni fra Mosul, Bagh­dad e il con­fine siro-iracheno.
All’origine di una crisi di que­ste pro­por­zioni ci sono ovvia­mente respon­sa­bi­lità mul­ti­ple. Ma l’egemonia implica con gli onori anche gli oneri.

Nell’ultimo discorso di stra­te­gia inter­na­zio­nale, pro­nun­ciato davanti ai cadetti dell’Accademia mili­tare di West Point il 28 mag­gio, il pre­si­dente degli Stati uniti Barack Obama ha ricor­dato il merito di aver slog­giato Al Qaeda dall’Afghanistan ma ha dovuto ammet­tere che il ter­ro­ri­smo jiha­di­sta è dila­gato in tutto il mondo dalla Siria alla Nige­ria, alla Soma­lia, allo Yemen, al Mali e altrove (in Iraq appunto). «Noi», ha detto Obama, «abbiamo biso­gno di alleati che com­bat­tano i ter­ro­ri­sti accanto a noi».

Allo scopo ha chie­sto al Con­gresso di stan­ziare 5 miliardi di dol­lari per finan­ziare un Coun­ter­ter­ro­rism Part­ner­ship Fund desti­nato ad armare e adde­strare. Non pro­prio un passo verso un futuro diverso. Il pre­si­dente ame­ri­cano è stato elu­sivo su even­tuali for­ni­ture mili­tari ai ribelli siriani ma oggi si trova addi­rit­tura davanti al bivio se dare le armi agli insorti o al regime di Assad, il vero ber­sa­glio dell’Isil (lo Stato isla­mico dell’Iraq e del Levante o della Siria), che ha tro­vato in Siria risorse eco­no­mi­che, armi, com­bat­tenti e una base operativa.

L’obiettivo dichia­rato dell’offensiva mili­tare con­tro Sad­dam decisa a freddo nel 2003 da Bush e Blair (fra i tanti aspetti tra­gi­co­mici della con­giun­tura euro­pea man­cava solo l’idea di ele­vare l’ex–pre­mier bri­tan­nico a capo della Com­mis­sione di Bru­xel­les) era di ridi­men­sio­nare il peso dell’Iraq nel Grande Medio Oriente. Un passo neces­sa­rio per il suc­cesso del pro­getto di acqui­sire l’area all’influenza ame­ri­cana attra­verso la famosa espor­ta­zione della demo­cra­zia. Con la guerra in Iraq ven­nero distrutti in un colpo solo il regime, il par­tito domi­nante, l’esercito, lo stato e la società.

L’unico fat­tore che si è dimo­strato più forte della grande armata di coa­li­zione è la posi­zione «cen­trale» nella regione dell’Iraq, che è anche al quarto posto nel mondo per riserve di petro­lio.
Ora Obama prende di mira con durezza le cat­tive pra­ti­che del capo del governo ira­cheno per dare un senso al com­pito che lui, già oppo­si­tore della guerra dagli scranni del Senato, si è assunto una volta inse­diato alla Casa Bianca, pro­po­nen­dosi di cele­brare il ritiro delle truppe dall’Iraq almeno con un mezzo suc­cesso per l’America dopo tanti sacri­fici e tante igno­mi­nie. Il vitu­pe­rato Nouri al-Maliki si è tro­vato in effetti a gestire una situa­zione fuori por­tata per i mezzi di un Iraq in piena tor­menta: troppo facile giu­sti­fi­care tutto con le sue ten­ta­zioni auto­ri­ta­rie e le discri­mi­na­zioni nei con­fronti di tutti i rivali.

La con­tesa set­ta­ria è una costante in Iraq. Il regime di Sad­dam ne era parte inte­grante e Maliki ha solo rove­sciato i rap­porti di forza. Frutto della con­trap­po­si­zione fra fedi e cul­ture diverse, il set­ta­ri­smo è sfrut­tato ampia­mente a fini pro­pri sia dalle éli­tes locali che dalle forze esterne. Dopo lo sman­tel­la­mento dell’apparato messo in piedi dalla com­po­nente sun­nita rac­colta nel Baath, sono sal­tate le difese e le mediazioni.

La mag­gio­ranza sciita, tra­di­zio­nal­mente emar­gi­nata o per­se­gui­tata, ha visto davanti a sé l’occasione da non per­dere. Non era dif­fi­cile capire che ciò avrebbe costi­tuito un’occasione anche per l’Iran, nemico di Sad­dam e dal 1979 arci­ne­mico degli Stati Uniti. Si basa su que­sto pas­sag­gio – com­pli­cità occulta fra Washing­ton e Tehe­ran o ete­ro­ge­nesi dei fini – la let­tura «com­plot­ti­sta» della sto­ria del Medio Oriente di que­sti ultimi anni, fatta di alcuni buoni argo­menti e molte forzature.

È pro­ba­bile che il disfa­ci­mento in can­toni comu­ni­tari dell’Iraq, e della stessa Siria, fosse una varia­bile guar­data con favore da molti degli attori den­tro il Big Game. Nes­suno avrebbe imma­gi­nato però lo spet­tro del Nuovo Calif­fato che l’Isis vor­rebbe costruire a cavallo di Iraq e Siria, unendo ideal­mente con­tro l’eterodossia sciita i due stati ter­ri­to­riali che hanno ospi­tato le capi­tali dei due calif­fati storici.

La fram­men­ta­zione stri­sciante dell’Iraq è in corso dallo scon­quasso del 2003. Una «linea verde» corre per­sino den­tro Bagh­dad. Il governo sciita ha dovuto gio­strarsi fra l’appoggio cer­cato o impo­sto, e comun­que ine­vi­ta­bile, dell’Iran, senza essere com­ple­ta­mente assi­mi­lato dal regime e dal modello degli aya­tol­lah e la neces­sità di farsi coprire per un verso dall’Arabia Sau­dita e per un altro dalla Tur­chia, l’una e l’altra a mag­gio­ranza sun­nita. Il solo rime­dio sarebbe una forma di neu­tra­lità mul­ti­fun­zio­nale, ma essa è quasi impos­si­bile dopo lo scop­pio della guerra in Siria che impe­gna un po’ tutti. Riad ha inviato il suo primo amba­scia­tore (viag­giante) a Baghad dopo anni di vacanza solo nel 2012. Ankara è il pro­tet­tore non dichia­rato della semi-autonomia di cui gode il Cur­di­stan ira­cheno, oggetto di cure e di freni per non ecci­tare il sepa­ra­ti­smo dei curdi della Turchia.

La grande poli­tica può ben dire di aver sem­pli­fi­cato i suoi oriz­zonti e i suoi stru­menti. È dif­fi­cile tut­ta­via scam­biare la mono­tona alter­na­tiva fra impo­tenza e guerra a seconda dell’utilità rela­tiva dei Grandi per un pro­gresso. Se l’unico metro di giu­di­zio è rap­pre­sen­tato dai «nostri inte­ressi» (our inte­rests), i diritti e le sof­fe­renze delle nazioni, dei popoli e delle per­sone restano alla mercé dei vio­lenti senza dif­fe­renza fra Bene e Male.

GIAN PAOLO CALCHI NOVATI

da il manifesto

1 commento su “La catastrofe umanitaria in Iraq”

  1. Anche se risale a qualche anno fa, invio questo contributo per ricordare quali siano le responsabilità statunitensi nell’aver provocato l’attuale situazione in Iraq e dintorni …e quali e quante siano state le violazioni dei Diritti umani operate da questi difensore della (loro!) democrazia…
    ciao, GS
    L’IRAQ NON E’ IL VIETNAM. E’ PEGGIO!
    Gianni Sartori (2006)
    Alla fine di ottobre 2005 l’aviazione statunitense informava di aver effettuato “bombardamenti di precisione contro postazioni di terroristi stranieri” sul villaggio di Betha, nel nord dell’Iraq. Quasi immediata la smentita dei medici dell’ospedale di Qaim che parlavano di circa quaranta morti civili tra cui alcune donne e dodici bambini: un massacro. E intanto i superstiti scavavano con le mani tra le macerie alla ricerca di altri corpi.
    Episodi del genere si contano ormai a centinaia nell’Iraq “liberato”.
    Confermando una tendenza in atto da tempo, nelle guerre sono soprattutto i civili ad essere vittime indifese di eserciti e milizie. In Iraq in particolare sono sempre più ostaggio delle truppe di occupazione e di quei gruppi (resistenti, guerriglieri, terroristi…o come si voglia chiamarli) che non fanno distinzione tra obiettivi militari e popolazione civile.
    Proprio nel giorno dei bombardamenti di Betha (31 ottobre 2005) il Pentagono, su richiesta del parlamento statunitense, rendeva pubblico un rapporto che calcolava in 26.000 gli iracheni uccisi o feriti dalla guerriglia dal marzo 2003. Ma aveva l’accortezza di non fare distinzioni tra civili ed esponenti delle forze di sicurezza. Soprattutto non forniva alcuna indicazione sulle vittime imputabili alle truppe di occupazione. Secondo l’organizzazione “Iraq body count” il numero dei civili uccisi sarebbe compreso tra 27mila e 30mila, il 37% dovuto al fuoco americano o inglese. Usa e Gran Bretagna sarebbero inoltre responsabili del ferimento di più di 40mila persone.
    E’ opinione di molti osservatori che queste cifre rappresentino solo una parte del massacro in atto contro la popolazione irachena. Per ammissione dello stesso Pentagono “il dipartimento della difesa non mantiene un conteggio preciso delle vittime irachene”. L’ex sergente dei marines Jimmy Massey (dopo aver raccontato di aver preso parte alla sistematica uccisione di civili ai posti di blocco) ipotizzava addirittura che il totale dei morti potesse arrivare a centomila. “Ma – aggiungeva – molto probabilmente non lo sapremo mai con certezza” , perché rimane incalcolabile il numero dei corpi abbandonati lungo le strade o frettolosamente sepolti in fosse comuni.
    Ovviamente sono più precisi i dati in merito ai caduti americani che da tempo hanno superato la soglia di duemila. Anche se l’amministrazione Usa continua a rassicurare i suoi cittadini insistendo sul fatto che il numero dei caduti (americani beninteso) è inferiore a quello del Vietnam, bisognerebbe calcolare anche le conseguenze future, traumi e malattie che perseguiteranno a lungo i reduci. Nella prima guerra del Golfo i caduti statunitensi furono poche centinaia, ma l’associazione dei reduci ha già denunciato più di ottomila decessi di ex militari che parteciparono alla “Tempesta”. E sono decine di migliaia coloro che in questi anni hanno accusato patologie dovute alle armi e munizioni in dotazione. Resta ora da vedere quali saranno gli effetti di uranio impoverito e fosforo bianco sui soldati inviati in Mesopotamia dal 2003. Per le popolazioni civili gli effetti sono invece già molto evidenti. A distanza di un anno è tornato prepotentemente d’attualità uno degli avvenimenti più orrendi di questa guerra: l’attacco contro Falluja (la “città delle cento moschee” diventata la “Guernica irachena”) del novembre 2004, operazione denominata al Fajr (l’alba).
    Nel suo libro “Fuoco amico” Giuliana Sgrena denunciava l’uso di Mk77 (in pratica napalm) e del fosforo bianco, citando proprio un’intervista al marine Jimmy Massey. Riportava anche il racconto di alcuni sopravvissuti che, tornati alle loro case (tra le poche rimaste in piedi), avevano trovato le stanze ricoperte da una polverina bianca. Molti si sentirono male e alcuni cominciarono a sanguinare appena iniziarono a pulire. E adesso ai racconti degli scampati si aggiungono le immagini atroci di quei corpi mummificati (ma con gli abiti intatti), di quei volti straziati dalla sofferenza. Proprio queste immagini hanno rilanciato con forza il dibattito sull’uso da parte dell’esercito americano di armi chimiche, in particolare del fosforo bianco.
    Quest’ultimo era già tristemente noto per essere stato usato dagli Italiani in Etiopia, dai nazisti alleati di Franco nel bombardamento della città basca di Guernica (aprile 1937), dalla Raf su Amburgo nel 1943, dagli Alleati su Dresda nel 1945, dagli Usa in Vietnam e da Saddam contro i Curdi negli anni ottanta. Alle testimonianze di alcuni ex militari come Jeff Garret (“Ho sentito via radio l’ordine di usare il Willy Pete, nome del fosforo bianco”) si è aggiunto un documento del governo inglese in cui si afferma chiaramente che gli americani “almeno in alcuni casi hanno usato armi chimiche”.
    Il direttore del centro studi per i diritti umani di Falluja, il biologo Mohamad Tareq al-Deraji, lo aveva già denunciato in giugno al Parlamento di Strasburgo. Aveva detto:” Una pioggia di fuoco è scesa sulla città, la gente colpita da queste sostanze ha cominciato a bruciare; abbiamo trovato gente morta con strane ferite, i corpi bruciati e i vestiti intatti”. Successivamente, dopo le smentite dell’ambasciata americana che protestava per la trasmissione di “Rai News 24” (“Falluja, la strage nascosta”), altre prove si sono aggiunte.
    Tre ufficiali statunitensi (un capitano, un sergente maggiore, un tenente) che avevano preso parte alla battaglia dell’8-20 novembre 2004, avevano inviato un memorandum agli Alti Comandi. Il testo venne poi pubblicato da Field Artillery (rivista dell’Artiglieria da campagna dell’esercito Usa) nel marzo 2005. Nel rapporto viene descritto l’uso del fosforo bianco contro obiettivi umani, per stanare gli insorti da trincee e cunicoli. Le azioni venivano denominate shake and bake (scuoti e cuoci). Il rapporto si conclude sottolineando come l’uso del fosforo bianco abbia avuto “effetti fisicamente e psicologicamente devastanti sugli insorti”. Anche un’altra rivista militare americana, Infantry Magazine, aveva riportato notizie in merito all’uso del fosforo bianco durante la battaglia di Erbil, nell’aprile del 2003.
    Il fosforo bianco usato in grandi quantità andrebbe considerato “un’arma di distruzione di massa di tipo non convenzionale” secondo Domenico Leggiero, ex ispettore internazionale al controllo degli armamenti. E aggiunge:” Il residuato dell’esplosione di fosforo bianco è un pulviscolo impercettibile che si posa ovunque, entra nelle stanze…reagisce con l’ossigeno, attacca in modo violento soprattutto mucose, bocca e apparato respiratorio. Funziona come una bomba neutronica, uccide ciò che è vivo”.
    Risale al 1980 la “Convenzione sulla limitazione e divieto delle bombe incendiarie” delle Nazioni Unite e al 1997 un nuovo documento sulla “proibizione di sviluppo, produzione, stoccaggio e uso di armi chimiche e sulla loro distruzione”. Documenti che, ironia della Storia, fornirono agli Usa la giustificazione per invadere l’Iraq.
    Gianni Sartori (2006)

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