Lavori al call center? Precario per sempre

di Marco Palombi

Col suo trentaduesimo voto di fiducia, per l’occasione al Senato, il governo fa approvare definitivamente il cosiddetto decreto Sviluppo. I contenuti sono quelli di cui si è parlato nelle settimane scorse: un po’ di semplificazioni, una riformetta degli incentivi alle imprese per anticipare quella proposta da Francesco Giavazzi, l’udienza filtro in appello, il credito d’imposta per la ricerca e poco altro. Corrado Passera, comunque, era contento che la sua creatura vedesse finalmente la luce, un po’ meno lo saranno stati quelli che lavorano nei call center. Colpa di un piccolo comma – per la precisione il settimo dell’articolo 24 bis – introdotto con un emendamento in commissione alla Camera e di cui finora non s’è quasi parlato: quella normetta prevede che chi si occupa di “attività di vendita diretta di beni e di servizi realizzata attraverso call center outbound”, vale a dire al telefono, può lavorare col contratto a progetto vita natural durante. Fine precarietà mai.

In sostanza, governo e Parlamento hanno sancito per legge che chi lavora in un call center è una sorta di figlio di un dio minore e deve essere abbandonato alla necessità di chi lo assume – si fa per dire – di competere con le altre aziende del settore cercando profitto quasi esclusivamente nella compressione del costo del lavoro.

Nel dibattito parlamentare su questo provvedimento però, segnatamente a Montecitorio, è successa una cosa curiosa: un solo deputato s’è alzato, dopo le dichiarazioni dei capigruppo, per annunciare il suo no in dissenso rispetto al partito che l’ha eletto. “Questa norma che consente di non stabilizzare i lavoratori dei call center è inaccettabile”, ha scandito in aula Giacomo Portas, deputato indipendente nel Pd, che in Piemonte ha fondato un suo movimento chiamato “I Moderati” (non proprio un nostalgico del Pci, insomma) arrivato al 9,6 per cento alle ultime comunali. Qual è la cosa strana? Portas nella vita è stato un imprenditore, ed è ancora un manager, proprio nel settore dei call center.

“Qualcuno – racconta al Fatto – m’ha detto che il mio è stato finora l’unico conflitto di disinteresse della legislatura, ma voglio essere chiaro: non sono un santo, mi piace guadagnare, ma nell’azienda che ho contribuito a fondare, di cui sono stato socio per anni e con cui ora continuo a collaborare, di co.co.pro. non ne abbiamo fatti in 12 anni e non li faremo mai”. La società in questione si chiama Contacta, ha diverse sedi in Italia e 2.200 dipendenti, “tutti assunti col contratto nazionale delle telecomunicazioni: rispetto alla proposta del governo, per capirci, si passa da 8-9 euro l’ora a 20”. Il “moderato” Portas, curiosamente, su questo tema pare più a sinistra pure di qualche sindacalista: “Si parla tanto di crescita e io dico che ci sono 2 miliardi di fatturato libero per l’Europa in questo settore che potremmo portare in Italia creando lavoro vero”. Lavoro vero perché, quello che si realizza con questa leggina non lo è, anzi, per contrappasso, finisce per avere l’effetto di tenere nel sottosviluppo le industrie del settore: “Così non si contribuisce a fare dei call center una moderna industria dei servizi, in cui fai l’outbound, ma anche la ricerca, l’inserimento dati, il marketing: per noi, per dire, l’attività di call center nel senso stretto è il 25-30% del fatturato”. Sul mercato, è la tesi del deputato piemontese, si sta meglio così: “Puoi fare margine anche rispettando i diritti delle persone, basta puntare sulla formazione e sulla qualità di gente che non è facilmente sostituibile: avere lavoratori preparati ti fa trovare commesse migliori, pagate meglio. Faccio un esempio: noi curiamo l’on line di Chebanca!, gruppo Mediobanca, e prima di iniziare i nostri hanno dovuto fare tre mesi di corso: non è che li puoi sostituire da un giorno all’altro. E poi noi lavoriamo in Germania, in Finlandia, un po’ dovunque in Europa: per garantire un servizio in 12 lingue devi avere gente preparata, mica la puoi tenere alla fame”. Infine una domandina ai tecnici e ai teorici dei salari che devono adattarsi alle dinamiche del mercato: “Parliamo sempre di crescita e di rilancio dei consumi, ma quanto può consumare uno che guadagna 700 euro al mese?”.

MARCO PALOMBI

da Il Fatto Quotidiano

Agosto 2012

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