Ancora una volta le elezioni non fanno che confermare un’immagine che l’Italia ci restituisce tutti i giorni: un paese profondamente frustrato che, nella sostanza, indirizza il forte dissenso verso il Governo del PD in molteplici direzioni, anche profondamente distanti, se non opposte, tra di loro.
Mi sembra che ci troviamo davanti un quadro abbastanza chiaro, ovvero la trasposizione italiana alla stessa frattura che si ripropone, con molteplici variazioni, in tutti i paesi d’Europa: da un lato i signori e i partiti della post-politica, delle non scelte, dell’amministrazione di regole imposte dal fuori, del T.I.N.A. (“there is no alternative”), dell’austerità e delle imposizioni tecniche, di cui il PD è degnissimo rappresentante (Do you remember il partito più votato nel 2014 tra i socialisti europei?); dall’altro la politica, con le sue passioni, rozze o sublimi che siano, le spinte di cambiamento e capovolgimento radicale, anche brutale, del riscatto del popolo, della gente, dei lavoratori contro i piani, veri o presunti, di sopruso e sottomissione da parte di chi è in “alto”, dentro i meccanismi del potere.
E’ chiaro che in quest’ultimo ambito può rientrare di tutto, dalla lega e i suoi proclami di sostituzione etnica dei lavoratori, al Movimento 5 stelle con la sua lotta contro la casta, ma anche al populismo portato avanti da Luigi De Magistris con il suo riscatto popolare della città di Napoli.
Tale eterogeneità, tuttavia, non cambia di una virgola il punto per coloro che fanno politica in un’ottica di emancipazione delle classi lavoratrici: questa è la frattura su cui bisogna porsi, questo lo spazio da egemonizzare sulla base di parole d’ordine emancipatorie ed universali, le nostre, dall’altra parte vi è il nemico da identificare, e su queste basi e premesse porsi i problemi dell’egemonia e del consenso.
Il quadro, cioè, è profondamente diverso, e d’altronde non potrebbe essere altrimenti dopo quasi 10 anni di una profondissima crisi costituente, dal classico e lineare schema che gli ultimi 20 anni di storia politica italiana ed europea (ed, azzarderei, anche dall’inizio del dopoguerra) ci hanno consegnato: non più una linea retta che parte da destra e arriva a sinistra, ove le identità politiche, collettive ed individuali, erano precisamente comprensibili, delimitabili, inquadrabili e caratterizzanti, quanto piuttosto delle bolle facilmente modificabili a seconda del polo di discussione e di interesse, delle linee di frattura, di quel dato momento. Con i grandi partiti e corpi intermedi morti e le ideologie, perlomeno nel senso comune, superate, d’altra parte non potrebbe che essere così, e la sfida sta proprio nel capire e nel tentare altre modalità di formazione delle identità collettive.
Non è più tempo, cioè, e non da oggi, delle proposte politiche “pret-a-porter”, con un elettore (consumatore?) che sceglie la proposta politica maggiormente confacente al suo pensiero, tale per cui basterebbe capire come modificare tale proposta (così verso destra così verso sinistra a seconda di ciò che si ritiene più “appetibile” per l’elettore), aggregare chi si colloca più vicino a noi nella “linea retta” delle proposte, per migliorare eventualmente i risultati, così alle elezioni come nella società.
Sicuramente ciò è vero per una parte della popolazione e dell’elettorato (probabilmente il più anziano e politicamente formato che oggettivamente ha vissuto epoche differenti dalle attuali), ma da quello che viviamo tutti i giorni, come confermato dai risultati di queste elezioni, ciò non basta più.
Porsi nel campo della politica, costruirlo ed egemonizzarlo con parole d’ordine emancipatorie, sottrarlo alla barbarie, vuol dire oggi cercare e portare avanti proposte politiche che abbiano in sé la capacità performativa prima che conformativa, del popolo che si propone di rappresentare. La politica non solo come fattore agito, ma come fattore agente, che delimita intorno ad un polo di merito la propria sfera di influenza, il proprio popolo e, esternamente, il fronte da combattere.
In Italia tutto ciò è già stato praticato per anni, e in qualche modo continua ad esserlo, dal Movimento 5 stelle che sulla lotta alla “casta” ha costruito non solo la propria proposta politica, ma anche il popolo di in grado di portarla avanti: non è riempiendo gli “spazi” vuoti dello scenario politico, ma aprendoli a partire dagli interstizi che si fa egemonia e l’operazione del M5S, prima in Europa, non ha fatto altro che portare a compimento tutto ciò.
Chiaramente ed evidentemente tali aggregazioni precarie su singoli punti di frattura non bastano, specialmente per i comunisti e le comuniste che hanno come obiettivo l’abbattimento del capitalismo e non certo l’entrata in Parlamento per (solo) ripulire la politica italiana.
Ma questa modalità di creazione della proposta politica è il punto di partenza imprescindibile per chiunque si ponga il tema della costruzione del consenso e dell’egemonia nella società del ventunesimo secolo: in una società completamente atomizzata, con un senso comune evidentemente schierato nel senso dell’individualismo e dell’autosfruttamento, il primo obiettivo non può che essere la creazione dell’humus adatto per poter ricostruire la lotta di classe, fatto di mutuo riconoscimento e accrescimento della consapevolezza collettiva della propria appartenenza; obiettivo che nella nostra società, flessibile e “flessibilizzata” non può che partire dalla costruzione di un popolo conformato sulla base di un tema, di un fronte emancipatorio dalla propria condizione di sfruttamento.
E’ esattamente ciò che ha compiuto Luigi De Magistris a Napoli negli ultimi anni, con il suo variegato ed eterogeneo movimento, con la creazione di un popolo napoletano fortemente caratterizzato e “antagonista” al potere, e identificato e identificabile nel proprio Sindaco, come l’unico facente parte del popolo stesso.
La costruzione del consenso, intorno e grazie, a un tale progetto politico è evidente, e solo confermata dal grande successo elettorale ottenuto dalla Coalizione di De Magistris, ma molto difficilmente replicabile, a meno di una profonda riflessione nel senso della costruzione del popolo, dalle sinistre classiche in altre città (e ancora più difficilmente a livello nazionale).
L’operazione napoletana, l’aggregazione attorno ad un movimento e ad un leader sulla base di parole d’ordine progressiste ed emancipatorie, ci permette di capire le potenzialità di un populismo di tal fatta, la creazione di un contesto ove ricostruire la consapevolezza di classe e della necessità di una battaglia per la democrazia anche economica e nel mondo del lavoro.
Ma non è tutto. Una tale operazione riesce a sfidare sullo stesso terreno della politica, e anche con maggiore successo, ma in nome dell’emancipazione altre modalità di creazione del popolo oggi egemoniche, basate però sulla paura e l’esclusione (lega) o su tematiche che difficilmente potranno costruire le basi per un cambiamento radicale (M5S).
Io personalmente ritengo che su questi temi sia finalmente giunta l’ora, anche in Italia, di aprire una discussione tra tutti coloro che individuano in maniera netta e chiara il nemico nei governi della post-politica e dell’austerity in un’ottica di emancipazione, per individuare quali temi, quali fratture, quali parole d’ordine possano essere il nostro grimaldello per costruire un popolo in grado di ritornare ad essere il protagonista dell’Italia. Sfidare sul suo stesso terreno il M5S, sul terreno del suo consenso, e non basarsi più (solo) sulla rappresentazione di identità politiche ormai sempre più sfumate e/o residuali. Non occupare il campo, ma crearlo!
Il tempo è ricco, ancora, di punti di torsione della Storia. Come partito con l’obiettivo di rifondare la teoria e la pratica comunista non possiamo (più) fare finta che questa discussione, non sia attuale, che essa non costituisca il primo passo verso la costruzione di un diverso modello di sviluppo economico.
Il mio auspicio è che, con uno sguardo e con l’aiuto dell’esperienza napoletana, sapremo essere, questa volta, all’altezza del tempo in cui viviamo.
CLAUDIA CANDELORO-Portavoce Nazionale Giovani Comunisti/e