DA NEET A DISOCCUPATI: GIOVANI E LAVORO NELLA CRISI

di Daniele Di Nunzio e Giuliano Ferrucci*

La crisi internazionale ha messo a nudo le debolezze strutturali del nostro paese, di un contesto in cui pagano soprattutto i soggetti più deboli, a partire dai giovani che entrano (se entrano) in un mercato del lavoro caratterizzato dalla progressiva erosione dei diritti e delle tutele. Di seguito focalizziamo l’attenzione sui giovani (15-24 anni) e sui giovani-adulti (25-34 anni), al fine di illustrare le specificità generazionali dell’occupazione e i cambiamenti intervenuti negli ultimi anni. A questo scopo abbiamo elaborato i dati Istat riferiti al primo semestre del 2007 (anno di minimo della disoccupazione in Italia) e al primo semestre del 2012 (ultimi dati disponibili per analisi ad hoc).

In Italia la dinamica demografica è negativa, siamo agli ultimi posti in Europa per natalità. Nel primo semestre 2012 si contavano circa 6 milioni di giovani di 15-24 anni, il 15,3% della popolazione in età da lavoro, e poco meno di 7 milioni e 400mila “giovaniadulti” (25 e 34 anni, il 18,6% della popolazione in età da lavoro). Le stesse percentuali nel primo semestre del 2007 erano rispettivamente 15,5 e 21,2%. La crisi ha accelerato invece l’invecchiamento degli occupati. Nel primo semestre 2012 erano circa 23 milioni, di cui soltanto il 4,9% con meno di 25 anni e il 20,6% in età 25-34; le stesse percentuali nel 2007 erano più elevate (6,5% e 24,9% rispettivamente). Le ragioni di questo fenomeno sono, insieme alle dinamiche demografiche accennate, l’innalzamento dell’età pensionabile e le difficoltà crescenti che i giovani incontrano nel mercato del lavoro.

Il tasso di disoccupazione – rapporto tra persone in cerca di lavoro e popolazione attiva (la popolazione attiva, ricordiamo, è la somma tra occupati e persone in cerca di lavoro) – è cresciuto sensibilmente negli ultimi anni : nel primo semestre 2012 era al 10,7% (+4,7 punti rispetto allo stesso semestre 2007), con incrementi significativi non solo tra i giovani e i giovani-adulti ma anche tra gli over 34. Più della metà dei disoccupati ha tra 15 e 34 anni e il tasso di disoccupazione in questa fascia è tra i più elevati d’Europa: nella classe 15-24 anni, in particolare, non riusciva a trovare lavoro nel primo semestre 2012 un giovane attivo su tre: il 34,9%, pari a 609mila persone – le statistiche più recenti riferite a febbraio 2013 informano che il tasso di disoccupazione è salito all’11,6% e quello giovanile (under 25), ha raggiunto il 37,8%! –; nella classe 25-34 poco meno del 15%. Nel Mezzogiorno il tasso di disoccupazione dei più giovani superava il 47% e quello dei giovani-adulti il 24%.

Con la disoccupazione è aumentato il numero dei precari: è diminuita infatti la prevalenza dei contratti a tempo indeterminato, progressivamente sostituiti da quelli a termine. Prime vittime della recessione, gli occupati temporanei hanno visto crescere successivamente il loro peso a causa del carattere atipico di buona parte delle nuove assunzioni. Nel primo semestre 2007 il 49,5% dei giovani occupati con meno di 25 anni aveva un contratto a tempo indeterminato; nel primo semestre 2012 la stessa percentuale è scesa al 39,8%, a fronte del 45,1% di giovani dipendenti a termine (il 35,8% nel 2007) e del 4,8% di giovani collaboratori (erano il 3,9%). Anche per i giovani-adulti tra i 25 e i 34 anni la quota di dipendenti a tempo determinato è cresciuta, passando in cinque anni dal 12,8% al 16,3% della totalità degli occupati. Il part-time risulta infine in forte ascesa nel lavoro dipendente, soprattutto di carattere involontario e soprattutto nella classe over 34: se per un verso il ricorso al tempo parziale può essere interpretato come uno strumento per abbassare il costo del lavoro, per un altro verso bisogna riconoscere che esso ha contribuito a contenere la caduta dell’occupazione.

Considerando la platea degli occupati, abbiamo definito “area del disagio” l’insieme dei dipendenti a tempo determinato e dei collaboratori che riferiscono di lavorare a termine perché non hanno trovato un impiego a tempo indeterminato, gli occupati che svolgono un lavoro a tempo parziale perché non hanno trovato un lavoro a tempo pieno, e chi è in cassa integrazione: complessivamente quasi 4 milioni e 400mila nel primo semestre 2012 (+36% rispetto allo stesso semestre del 2007). Cadono nell’area del disagio il 54,4% degli occupati più giovani e il 28,1% dei giovani-adulti che lavorano, percentuali in sensibile ascesa rispetto a cinque anni prima (erano il 39,8 e il 19,2%). Se consideriamo anche il lavoro irregolare, che sfugge almeno in parte alle statistiche ufficiali e che, secondo il Forum Giovani, interessa circa il 30% degli occupati tra i 20 e i 29 anni, comprendiamo quanto siano difficili le condizioni di lavoro di chi pure ha la “fortuna” di lavorare. Se osserviamo infine le retribuzioni rilevate dall’Istat, la condizione delle nuove generazioni emerge in tutta la sua drammaticità: guadagna non più di mille euro al mese il 66% di chi ha meno di 25 anni e il 40% dei giovani-adulti (25-34 anni).

Il percorso scolastico universitario dei giovani italiani risente delle disuguaglianze sociali che affliggono il paese: la scelta di abbandonare precocemente gli studi toccava nel 2011 una platea ancora molto numerosa, pari al 18% dei giovani tra 18 e 24 anni (obiettivo della Strategia Europa 2020 è ridurre al 10% la quota degliearly school leaver). Peraltro da noi la quota di laureati in età 30-34 anni è relativamente bassa (nel 2011 intorno al 20%), molto lontana dall’obiettivo Ue del 40% fissato per i prossimi sette anni. Nel primo semestre 2012 la quota di giovani occupati under 25 con al più la licenza media è ancora molto elevata (29,7% della totalità dei giovani occupati), nonostante la sensibile diminuzione rispetto allo stesso semestre di cinque anni prima (era il 35,8%) D’altra parte, la distribuzione delle professioni rivela il basso livello di qualificazione del sistema: considerando la percentuale di occupati nei comparti manifatturieri e dei servizi caratterizzati da alta tecnologia e conoscenza, nel 2011 l’Italia – con il 3,3% degli occupati – era al 19esimo posto della classifica europea. Nonostante la retorica delle “competenze tecniche”, la realtà è che negli ultimi cinque anni gli occupati in professioni tecniche sono diminuiti in tutte le classi di età, in numero assoluto (-1 milione circa fra il primo semestre 2007 e lo stesso semestre 2012) e sul totale degli occupati (dal 22,2% al 17,8%). Le professioni intellettuali e scientifiche sono aumentate ma solo nella classe degli adulti sopra i 34 anni. È cresciuto insieme il numero di occupati in professioni non qualificate, in particolare nelle classi 25-34 e over 34.

Com’è noto, il nostro tessuto produttivo è costituito in massima parte da imprese di piccole dimensioni, per fatturato e numero di addetti. Nel primo semestre 2012 circa la metà dei giovani dipendenti di 15-24 anni era occupata in aziende con meno di 10 addetti, una quota cresciuta sensibilmente negli ultimi anni e molto più elevata di quella della classe degli over 34 (nell’ordine del doppio). Se è vero che, in generale, le imprese medio-grandi offrono condizioni di lavoro migliori, la presenza di giovani in queste realtà aziendali è ancora molto contenuta: meno del 20% dei dipendenti avrebbe fino a 34 anni, una misura disarmante della difficoltà che il sistema imprenditoriale (pubblico e privato) dimostra nel riconoscere alle nuove generazioni il ruolo propulsivo e di innovazione che naturalmente gli spetta.

Neet – not in employment, education or training – sono i giovani tra 15 e 29 anni che non studiano, non seguono corsi di formazione e non lavorano. In Italia erano più di 2 milioni nel 2011, pari al 24% della popolazione di riferimento, una quota significativamente più alta rispetto alla media europea (15,6%) e rispetto a tutti i grandi paesi del vecchio continente, Spagna compresa (20,4%). Nell’insieme dei Neet, i giovani che cercano attivamente un impiego sono poco più di un terzo, gli altri sono inattivi, in maggioranza del tutto fuori dal mercato del lavoro. È questa maggioranza la componente più problematica: di carattere strutturale –non dipende cioè dalla crisi –, testimonia la sfiducia dei giovani verso gli strumenti primari di emancipazione – l’istruzione e il lavoro –, un fenomeno molto preoccupante perché dimostra la deriva di una parte rilevante delle nuove generazioni.

DANIELE DI NUNZIO e GIULIANO FERRUCCI
IRES CGIL

10 giugno 2013

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