I Giovani Comunisti/e per il reddito minimo garantito

redazionale

Reddito minimo garantito: aderisci, sostieni, diffondi, firma! Una serie di associazioni, movimenti, realtà sociali, comitati sta lanciando una campagna per la proposta di una legge di iniziativa popolare sul reddito minimo garantito in Italia che avrà come termine dicembre 2012.
E’ arrivato il momento, non più rinviabile, affinché una proposta di legge sul reddito minimo garantito venga inserita nell’agenda politica di questo paese. I numeri che ogni giorno vengono presentati dagli enti di statistica e di ricerca racconta di un paese sull’orlo del disastro sociale, un default sociale che sta dimostrando con sempre maggiore chiarezza la necessità di una nuova politica redistributiva e l’importanza, cosi come richiamato in molti testi e risoluzioni europee, della misura del reddito minimo garantito. E’ necessario definire, prima di tutto per il riconoscimento della dignità umana, una base economica sotto la quale nessuno deve più stare! Il reddito minimo garantito non è più rinviabile!
Il reddito minimo garantito è un argine contro la ricattabilità, il lavoro nero, il lavoro sottopagato e la negazione delle professionalità e della formazione acquisita. Significa in buona sostanza non vendersi sul mercato del lavoro alle peggiori condizioni possibili. Da argine può diventare un paradigma per la costruzione di un welfare che includa e promuova, garantisca autonomia e libertà di scelta. Siamo tra i pochissimi Paesi europei – oltre a noi solo la Grecia – a non avere alcuna forma di tutela e sostegno al reddito. Lontani anche dall’articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
E’ necessario anche per questo dare vita ad una ampia coalizione che faccia propria la campagna e che si costruiscano in tutto il paese iniziative, dibattiti, momenti di comunicazione ed informazione, adesioni e soprattutto firme che permettano, da qui a dicembre 2012, la presa di parola di decine di migliaia di persone che pongano il tema del reddito minimo garantito come uno dei temi principali per la fuoriuscita dalla crisi.
E’ necessario per questo che le adesioni aumentino, che nascano comitati per il reddito minimo garantito, che le forze sociali, politiche, sindacali prendano posizione e si attivino affinché questa campagna diventi uno dei punti nodali non solo dell’iniziativa pubblica ma che ponga con forza su cosa si debba fondare il contrasto alla crisi sociale che milioni di persone subiscono.
Il reddito garantito è uno di questi pilastri!
Fino a dicembre 2012 sul sito della campagna si raccoglieranno le adesioni, le idee, le iniziative, i luoghi in cui poter firmare ed i documenti utili alla campagna e al dibattito intorno e per il reddito minimo garantito. Il sito della campagna ospita già la proposta di legge ed i materiali utili alla raccolta delle firme, verrà inoltre implementato fino alla fine della campagna sperando che siano moltissime ancora le adesioni, le informazioni da inserire e le iniziative nei territori.
Vi chiediamo pertanto di aderire, sostenere, diffondere, promuovere con la vostra associazione, comitato, realtà sociale, rete o movimento la campagna per un reddito minimo garantito in Italia. Di costruire e promuovere iniziative, dibattiti, banchetti, raccolta firme, feste, concerti per rendere questa campagna più partecipata e ricca possibile.
Tutte le iniziative saranno pubblicate sul sito ufficiale della campagna. Se ritenete utile ed importante partecipare inviate il nome esatto del vostro Comitato, associazione, movimento, rete etc. cosi da inserirlo tra i sostenitori e aderenti della campagna.

www.redditogarantito.it

Ps: Questa iniziativa che riguarda l’Italia per una legge nazionale sul reddito minimo garantito potrebbe inserirsi in aggiunta ad un’altra campagna che a partire sin dall’autunno prossimo vedrà la possibilità di raccogliere le firme per una misura di reddito di base a carattere europeo di cui vi daremo notizia nei prossimi mesi

3 commenti su “I Giovani Comunisti/e per il reddito minimo garantito”

  1. A quanto pare già tempo fa ci fu una discussione sull’errore di tale proposta da parte dei comunisti. Riposto qui un articolo tratto da il manifesto, venerdì 30 giugno 2006

    Reddito garantito, un’utopia neoliberale
    Devi Sacchetto * – Massimiliano Tomba *

    L’articolo di Giovanna Vertova (il manifesto, 4.6.2006), al quale hanno replicato sulle colonne di questo stesso giornale Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli (16.6.2006), ha passato in contropelo alcuni luoghi comuni delle recenti proposte sul reddito di esistenza, mettendone in evidenza debolezze teoriche e politiche. Non senza però sottolineare il problema dal quale quell’esigenza sorge: precarizzazione del lavoro e ridefinizione del welfare.
    La formula del «reddito di esistenza» (basic income) appartiene al quadro delle scommesse politiche che cercano di attuare una qualche ricomposizione di un ideale soggetto precario. Da un quindicennio, con un’accentuazione tutta italica, il dibattito sulle trasformazioni del lavoro si è concentrato sulla moltiplicazione delle forme contrattuali (scambiata erroneamente per deregolamentazione, quando si tratta invece di una maxi-regolazione perfino delle forme che un tempo sarebbero state illegali) e sulla virtuosità immateriale del lavoro. I processi produttivi della nuova epoca postfordista sarebbero legati alle reti di conoscenza che si estendono sul pianeta, nelle quali ognuno interviene portando la sua dose di intelligenza… e lasciando a casa le mani.

    L’espansione del settore dei servizi, così ampio da comprendere le pulitrici e i bancari, rappresenterebbe uno degli indicatori principali di questa nuova tendenza.
    Il «reddito di esistenza», prendendone sul serio la retorica, assume una mossa del secondo operaismo italiano, che liquidò – senza mai curarsi di fornirne alcuna analisi – la nozione marxiana di valore per far posto ad un’altra scommessa teorica: si trattava dell’operaio sociale, allora. Venne poi l’enfasi sul general intellect, e quindi sul sapere sociale generale, che ha funzionato come accattivante passe-partout per legittimare l’idea del carattere meramente residuale del lavoro operaio industriale nella fase attuale, e del passaggio ad un lavoro immateriale, intellettuale, tecnologico. Ora viene fatto un passaggio ulteriore: sarebbe il tempo di vita ad essere messo al lavoro, e quindi il consumo, in quanto attività relazionale e immateriale, ad essere produttivo di valore.
    Questo approccio, appoggiato su un «paradigma a stadi», e quindi sulla successione temporale fra sussunzione formale e sussunzione reale, fra estrazione di plusvalore assoluto e estrazione di plusvalore relativo, permette di individuare – con una mossa tipica di ogni filosofia della storia – nel lavoro ad alta tecnologia e nel «postfordismo» un tendenza rispetto alla quale altre forme di lavoro sono giudicate «residuali».
    Questa visione vale forse per un francobollo del pianeta terra, vale a dire per le aree più avanzate sul piano economico e tecnologico, ma taglia fuori con noncuranza i quattro quinti del pianeta, dove lavoratori salariati e coatti sono al centro di un’estorsione senza pari di plusvalore assoluto. Non si tratta, qui, di ragionare in termini «reattivi», negando la presenza di cambiamenti rispetto al passato. Ma è senz’altro sbagliato – sia teoricamente sia politicamente – definire in termini di arretratezza o «residualità» lo sfruttamento assoluto ancora in espansione nel pianeta. I 300 milioni di lavoratori coatti oggi esistenti nel mondo non sono un residuo precapitalistico se la frusta del sorvegliante è comandata dall’intensità del lavoro socialmente necessario registrata nelle borse mondiali. Sarebbe forse più opportuno interrogarsi sulla compenetrazione dei diversi livelli di sfruttamento, abbandonando un fallace paradigma a stadi storici che vorrebbe l’epoca della sussunzione formale superata da quella della sussunzione reale.
    Il problema di un’economia globalizzata, nella quale viene meno anche la distinzione tra centro e periferia, è la relazione tra i diversi tipi di sfruttamento, vale a dire il modo in cui enormi masse di plusvalore assoluto prodotte nelle più svariate parti del mondo sorreggono produzioni ipertecnologiche ed espansione dei servizi qui da noi.

    Da questo punto di vista va messo a tema quanto Fumagalli e Lucarelli affermano: è all’esterno del processo di lavoro e dei rapporti di produzione che viene pensata una ricomposizione del lavoro precario. Essi non mettono in questione lo sfruttamento insito nelle dinamiche capitalistiche, ma ne richiedono una sorta di «regolazione istituzionale»: col reddito d’esistenza, infatti, si lascerebbe quantomeno inalterato (anche se probabilmente peggiorerebbe) il tasso di sfruttamento di coloro che dovrebbero effettivamente pagare il reddito d’esistenza a qualcun altro. Abbandonati i laboratori della produzione per le celesti sfere della circolazione e della distribuzione, l’immagine di una vita messa radicalmente al lavoro ci presenta, oltre che uno scenario postclassista, una sorta di olismo del capitale, rispetto al quale sono tutt’al più possibili riforme e nuove forme di redistribuzione della ricchezza.
    Lungi dal costituire un allargamento delle lotte all’intera società, il reddito garantito significa innanzitutto la messa in mora di ogni discussione sulle forme della messa al lavoro. Mentre si continua a discutere impropriamente di mercato del lavoro, è assordante il silenzio sul contenuto del lavoro, a parte le ipotesi paradisiache relative ai lavoratori autonomi della conoscenza di seconda generazione. Se esiste una tendenza vera nei paesi occidentali, è lo sgretolamento del welfare state accompagnato alla precarizzazione del lavoro. E se ciò può avere come presupposto la critica di un’intera generazione operaia alla logica sacrificale del compromesso welfarista e laburista, ciò non toglie che la risposta padronale e governativa a quello scontro è stata in grado di capitalizzare quegli stessi comportamenti di insubordinazione operaia. Ma allora, cavalcando la tendenza e persuadendoci di averla noi stessi impressa – dalla fuga dal lavoro alla precarietà? – rischiamo di trovarci vicino alle posizioni neoliberali sul reddito garantito, certamente compatibile con un sistema nel quale welfare e servizi vengono immessi nel mercato, al quale il singolo sarà libero di accedere per via monetaria, scegliendo liberamente cosa comprare.
    * Università di Padova

  2. Questo invece è l’articolo della Vertova citato sopra:

    Dal Manifesto

    Reddito e salario: si parte dal lavoro e dal conflitto

    Giovanna Vertova
    Una mia critica al basic income ha dato vita ad una accesa discussione su tre questioni-chiave: le novità del capitalismo contemporaneo; il lavoro cognitivo; la centralità della lotta dentro e contro il capitale.
    Le posizioni di Fumagalli/Lucarelli, da un lato, e Bellofiore/Halevi e chi scrive, dall’altro, sono alternative. Per Fumagalli la vita produce ricchezza e valore: unico problema, la redistribuzione. Il capitalismo contemporaneo è accettato così com’è. Non un riferimento all’instabilità dei nuovi processi di valorizzazione, alle metamorfosi monetarie, ai conflitti geo-politici, all’insostenibile dinamica macroeconomica, alla nuova politica economica, quasi fossero irrilevanti. Fumagalli e Lucarelli, contraddittoriamente, vogliono essere realisti (un reddito di esistenza universale «può essere raggiunto solo gradualmente a partire da chi si trova nella condizione più sfavorevole di intermittenza di reddito o con lavori magari continuativi ma sottopagati») e incompatibili (il basic income deve essere elevato). La debolezza attuale fa elargire il basic income soltanto ad alcuni lavoratori, crea diritti differenziali, apre al ribasso del salario su cui ho insistito. Il desiderio fa sognare che quella debolezza mascheri una forza tale da infrangere le compatibilità strette del capitalismo flessibile.
    La fantasia secondo cui la vita è «produttiva», sicché si retribuisce qualcosa di già dato, dovrebbe eliminare la contraddizione. Fumagalli e Lucarelli ragionano come se fossimo di fronte ad una appropriazione meramente politica da parte del capitale di una produttività che «naturalmente» spetta al solo lavoro sociale, e l’unico compito politico è riappropriarsi di quanto è già nostro. Peccato che, così come non esiste il capitale senza il comando sul lavoro, non esiste «produttività»’ del lavoro fuori dall’inclusione nel capitale. Questo è il capitalismo: una classe decide cosa, come, quanto produrre; un’altra deve necessariamente vendere la propria forza-lavoro, «materiale» o «immateriale» che sia il lavoro erogato. L’antagonismo è possibile, ma ha come centro la produzione. Ciò non contrasta con l’introduzione di ammortizzatori sociali contro la precarietà, su un asse diverso da quello del basic income, per la indisponibilità della forza-lavoro a far dipendere la propria esistenza dalle convenienze del capitale. La divisione tra economisti è, dunque, tra chi ritiene che si debba guardare in faccia il capitalismo di oggi così com’è, e chi preferisce rivolgersi al mondo dei sogni.
    Morini e Tajani si tengono al concreto. Peccato che ci diano una immagine discutibile della realtà del lavoro, con lo scivolamento discorsivo per cui l’analisi della precarietà (fenomeno che, in vario grado, investe tutti i lavoratori) si concentra solo sui lavoratori della conoscenza, per una loro presunta centralità empiricamente contestabile. Anche nel terziario la gran parte delle assunzioni è in lavori a bassa qualifica e basso salario. Nello stesso lavoro cognitivo la taylorizzazione procede spedita, e così i modi più o meno sofisticati di controllare e misurare il tempo di lavoro. La fine della teoria del valore per la presunta non misurabilità del lavoro affascina i teorici post-operaisti: non sarebbe male che la notizia arrivasse ai padroni che sembrano esserne all’oscuro. Anche Morini e Tajani si contraddicono: il lavoro cognitivo è alienante e ripetitivo, ma creativo. Il ragionamento è noto. Lo strumento di produzione è oggi la testa, non il braccio: dunque lavoro e vita si confondono. La natura totalizzante del capitale può essere così rovesciata. Il lavoro immateriale è oppresso, ma possessore della conoscenza e delle condizioni di comunicazione/coordinazione.
    L’intervento di Freschi è prezioso perché ricorda che il mondo del lavoro è eterogeneo. Ridurre forzatamente all’unità un mondo plurale nega l’esigenza della riunificazione tra soggetti del lavoro differenti e con pari dignità, e sostituisce astrazioni vuote all’inchiesta concreta. Dentro il lavoro cognitivo è paradigmatico il caso del ricercatore precario. Le sue competenze sono sempre più riproducibili, codificabili, valorizzate selettivamente in processi organizzativi e regolativi segnati da rapporti di potere. Chi non crede ad una taylorizzazione spinta della conoscenza, dove si misura ciò che si pretende senza misura, dia una occhiata alle nostre università. Non ci si può attendere un cambiamento dalla mera garanzia del reddito, ma solo da una azione che sappia entrare nelle relazioni di lavoro per contestarne le asimmetrie di potere.
    Sacchetto-Tomba e Gambino-Raimondi toccano il nodo centrale. Individuando, i primi, lo sfondo categoriale dietro il basic income. Un paradigma a stadi per cui dall’estrazione di plusvalore assoluto, tipico del primo capitalismo e oggi della periferia, si passa all’estrazione di plusvalore relativo nel capitalismo attuale. Ciò taglia fuori quattro quinti del pianeta, e cancella (come notano Bellofiore e Halevi) due cose. Primo: la periferia è ormai dentro il centro (e viceversa), anche qui da noi. Secondo: il capitalismo ipertecnologico e il lavoro cognitivo si nutrono di plusvalore assoluto e di lavoro materiale, nei vari angoli del pianeta. Il nuovo capitalismo si gioca sul controllo dei tempi e sull’incremento dell’intensità di lavoro, attraverso il progresso tecnologico, la diffusione spaziale e la frantumazione del lavoro. A ragione Gambino e Raimondi mettono in risalto la natura transnazionale del problema e le condizioni materiali del lavoro «migrante».
    E’ vero: mi sarà contrapposta la dialettica tra «ottimisti» e «pessimisti». Ma la chiarezza su come stanno le cose è il nostro primo dovere. Mi preoccupa la progressiva discesa nell’idealismo. Ancor di più tra gli economisti della sinistra radicale. Sul debito pubblico, sul conflitto distributivo, ora sulla precarietà, non si parte dal rapporto capitale-lavoro, dalla composizione di classe, dall’inchiesta, ma dalle buone intenzioni. Io rimango testardamente convinta che è dalle lotte nel lavoro, e contro questo lavoro, che si deve ripartire.

  3. Anzi, il primo articolo (e quello più chiaro)da cui partì la discussione era questo, dal manifesto del 4 giugno 2006:

    Le tante trappole del «reddito garantito»

    Giovanna Vertova *

    E’ uscito recentemente il libro Reddito garantito e nuovi diritti sociali, frutto di una ricerca dell’Assessorato al Lavoro, Pari Opportunità e Politiche Giovanili della Regione Lazio. L’idea è di offrire delle linee guida alle amministrazioni regionali che intendono proporre forme di basic income. Il volume è importante per due motivi. Formula una proposta politica precisa di reddito garantito, all’interno di una visione più complessa che mira alla revisione ed all’aggiornamento di un sistema di welfare per adeguarlo al nuovo capitalismo flessibile. Fornisce, inoltre, una dettagliata analisi di simili iniziative a livello europeo.
    La proposta nasce dall’esigenza di pensare ad un nuovo sistema di welfare che tenga conto della precarietà, ormai dilagante. La nuova organizzazione del lavoro nei paesi a capitalismo avanzato mette in discussione la distinzione netta tra tempo di lavoro e tempo libero, occupazione e inoccupazione. Occorre, quindi, inventare nuove forme di protezione sociale. Nel capitolo «Il reddito per chi, quando, quanto, come e da chi» si suggeriscono le risposte alle domande che un amministratore dovrebbe porsi nel caso volesse introdurre una simile misura: per chi? quanto? quando? come? da chi?. Per chi: a «coloro che vivono sotto una certa soglia di reddito (sia esso il salario minimo, la pensione sociale o altro)» (p.76). E, comunque, per tutti i precari in condizioni di non lavoro e per i soggetti in stato di povertà sotto una soglia minima accettabile. Si pensa così di riuscire anche a frenare la corsa verso il basso dei salari reali: i lavoratori avrebbero l’opportunità di rifiutare lavori servili e poco remunerati, riducendo l’offerta di lavoro e spingendo la retribuzione del lavoro «tradizionale» verso l’alto. Quanto: non viene data una risposta precisa, ma si ricorda che l’ammontare deve essere calcolato tenendo in considerazione i suoi effetti sul livello della spesa pubblica. Quando: «nei casi di squilibrio sociale indotto dalla precarietà, laddove gli individui sono posti di fronte ad una disuguaglianza di opportunità dovuta all’assenza di un reddito adeguato» (p. 80). Come: «l’erogazione potrebbe comporsi sia di una parte monetaria, sia di una parte offerta in natura» (p. 93). Il reddito garantito dovrebbe essere articolato sia come diretto (erogazione monetaria) che come indiretto (erogazione di beni e servizi primari), includendo l’allargamento delle tradizionali forme di garanzia del lavoro così detto «fordista» (ferie, malattie, maternità, etc.) ai lavoratori precari. Da chi: le Regioni sarebbero maggiormente attive sul piano dell’erogazione dei beni e servizi primari, lo Stato centrale sul piano dell’erogazione monetaria.
    Condivido l’urgenza di ripensare un sistema di welfare adeguato al nuovo cosiddetto «capitalismo flessibile». Se ci si muove nella direzione del basic income mi sembrerebbe però più ragionevole pensare ad un reddito di esistenza per tutti, incondizionato. Si tratta, è chiaro, di un’idea di difficile applicazione in Italia, perché richiederebbe un sistema fiscale molto progressivo, capace di combattere davvero evasione ed elusione. La proposta, tuttavia, non convince né teoricamente né politicamente. Dal punto di vista teorico, rilevo i seguenti limiti. Erogare un reddito garantito solo ad alcune categorie di soggetti rischia di aumentare la frammentazione del lavoro. Il nuovo capitalismo è riuscito pienamente a dividere il lavoro, ad individualizzare la prestazione lavorativa e a mettere in contrapposizione gli interessi dei ‘garantiti’ (quantitativamente decrescenti) con quelli dei ‘precari’. Occorre piuttosto ricomporre il mondo del lavoro e disegnare interventi politici che sottolineino come la precarizzazione, sia pure in forme diverse, sia un fenomeno trasversale. Bisogna evitare la divisione della società in due sfere, poiché la precarietà non colpisce solo certe fasce di popolazione. Siamo di fronte ad una precarizzazione generale. Se si vuole capirne il significato, non ci si può limitare a registrare che i nuovi entranti sul mercato del lavoro sono sempre più figure con contratti atipici. Infatti, a seconda del ciclo economico, è possibile che si abbia una successiva regolarizzazione di questi lavoratori: e si rimane sguarniti rispetto ad obiezioni alla Ichino (Corriere della Sera, 15/05/06) che chiedono una riduzione delle garanzie dei lavoratori a tempo indeterminato per combattere davvero la precarietà dei «giovani». La vera funzione della precarizzazione sta in altro: nello stabilire un permanente potere di ricatto che rende poco contestabile il comando del capitale dentro il processo di valorizzazione, dentro i luoghi di lavoro. Quale che sia la qualità del lavoro, e talora addirittura quale che sia il salario.
    Si può aggiungere che il reddito garantito rischia di spingere tutta la struttura dei salari verso il basso, contrariamente a quanto sostenuto nel volume. I «padroni» avrebbero tutto l’interesse a ridurre i salari, visto che il lavoratore percepisce anche il reddito garantito. Si indebolisce così, contro le intenzioni, la capacità contrattuale di tutti i lavoratori. Si favorisce, di conseguenza, l’istituirsi di un compromesso malsano tra lavoratori e padroni: i primi offrono salari e posti saltuari, i secondi li accettano perché intanto c’è il reddito garantito. Così i ‘lavori buoni’ spariscono e i ‘lavori cattivi’ dilagano. Oltretutto, misure redistributive di questo tipo (come il reddito garantito, di esistenza, di cittadinanza, etc.) assumono, più o meno esplicitamente, che il capitalismo contemporaneo produca valore e plusvalore in modo stabile, e si basano su interpretazioni del medesimo quanto meno approssimative, anche se diventate ormai luoghi comuni (l’economia della conoscenza, il post-fordismo, etc.). Le classiche forme di redistribuzione hanno funzionato quando collocate in un contesto macroeconomico ben più sostenibile di quello presente. Basti ricordare i ricorrenti fenomeni di instabilità sia reale che finanziaria che si sono susseguiti negli anni più recenti, che rendono le misure meramente redistributive alquanto illusorie, come quella che così si possa davvero sostenere la domanda effettiva. Si riproduce così un vecchio errore del sottoconsumismo, e si dimentica che la dinamica macroeconomica è sostenuta dalle componenti autonome della domanda: investimenti, esportazioni nette, spesa pubblica, il consumo gestito oggi «dall’alto» dalla politica monetaria. La redistribuzione potrà spingere verso l’alto la domanda effettiva solo dentro una politica economica alternativa caratterizzata da una ridefinzione strutturale molto più forte della domanda e dell’offerta, ben diversa dalla pallida ri-regolazione e politica industriale per incentivi e disincentivi, di cui il nuovo governo sembra farsi promotore.
    Misure come il reddito garantito possono forse rendere più sopportabile la precarietà nel breve periodo, ma non la eliminano: semmai la cristallizzano e la congelano. Determinano condizioni di maggior debolezza per i lavoratori, poiché rendono più accettabile la frammentazione del lavoro e conducono all’abbandono della lotta per un lavoro vero e garantito per tutti. Politicamente un impianto del genere sembra fatto apposta per creare le basi di uno scambio con la sinistra «moderata»: accettazione più o meno dichiarata della flessibilità in cambio di un qualche sostegno al reddito. Magari affiancata alla riduzione del cuneo fiscale che, ancora una volta, riproduce una idea di ripresa basata sul basso costo del lavoro e che scarica gli effetti sulle politiche, appunto, assistenziali. La triste storia del programma dell’Unione circa la Legge 30 (superamento o cancellazione?) ci insegna qualcosa?
    * prof.ssa – università di Bergamo

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