L’ultima conferenza

È incredibile come lo stesso lasso di tempo possa sembrare un istante e, contemporaneamente, un’eternità; eppure è esattamente così che mi appaiono tanto gli ultimi tredici anni della mia vita, quelli dell’attività politica in senso lato, quanto gli ultimi sette in particolare, caratterizzati dalla mia militanza nei Giovani Comunisti. Militanza giunta al suo ultimo anno, prima dei fatidici TRENTA e dell’ingresso nel Partito degli adulti.

Insomma, sarei “fuori dai giochi” anche se la Giovanile fosse organizzata nel modo che riterrei più opportuno in una fase di maggior radicamento: esecutivi composti da compagni di massimo ventiquattro anni, mentre dai venticinque ci si occupa di formare e coadiuvare i più giovani, fungendo da legame tra GC e partito “dei grandi”.

Ma essere tra quei grandi ha un vantaggio: poter giocare il ruolo dell’anziana che da consigli, fingendo di saperla molto più lunga rispetto alla realtà. Un’occasione che, nella migliore tradizione degli anziani da cantiere, non ho certo intenzione di sprecare!

Dunque, i miei “consigli della nonna” vengono niente meno che da un documento che lessi qualche anno fa, redatto dalla gioventù comunista spagnola. Il titolo era all’incirca Le 100 regole del militante di una giovanile comunista, un testo piuttosto lungo ma anche parecchio pragmatico, del quale mi sono rimaste fisse nel pensiero in particolare due regole.

La prima recita: <<non si entra nel Partito per trovare amicizie o relazioni; ciò non significa che non possa accadere, ma non deve essere questo lo scopo della militanza>>.

A partire da questa regola ho sviluppato una metafora sul rapporto tra personale e politico, che sono sicura un giorno verrà ricordata come il trait d’union tra idraulica e filosofia politica: personale e politico sono come due recipienti pieni di liquidi diversi e collegati da un tubicino, che permette in parte la miscelazione dei liquidi stessi. Pensare di tenere i due fluidi separati a compartimenti stagni è dannoso quanto miscelarli in modo irrazionale.

In effetti, a che serve chiacchierare di diritti dei lavoratori e degli studenti, se poi non si aiuta un collega o a un compagno di scuola nelle difficoltà quotidiane? O scrivere interventi su quanto ci sentiamo in connessione con chi subisce le peggiori iatture sociali, se poi facciamo deliberatamente gli stronzi con fidanzati e partner in genere, senza il minimo rimorso?

Certo essendo materialisti sappiamo bene che la Futura Umanità non potrà che nascere dall’instaurazione di un sistema libero dallo sfruttamento, dunque del Socialismo; e sappiamo di essere figli del nostro tempo, della società in cui siamo cresciuti. Ma sarebbe davvero poco dignitoso pensare che queste possano essere giustificazioni credibili per i nostri comportamenti più individualisti. Non a caso, lo stesso Statuto del PCI conteneva un piccolo riferimento al “costume di Partito”: <<ogni membro del Partito Comunista Italiano deve comprendere che a lui guardano i compagni e le compagne […] come ad un militante che lotta […] per una società più giusta e più sana. Egli/Ella deve perciò preoccuparsi costantemente di essere di esempio con la sua vita privata, con la condotta verso la propria famiglia, i vicini, i compagni di lavoro, con il comportamento morale, l’onestà, lo spirito di solidarietà umana e sociale di cui dà prova>>.

La seconda regola, importantissima, ricorda che <<nessuno può dire di essere veramente comunista finchè non entra nel Partito>>. Oltre al contenuto anti-individualista, all’importanza data al collettivo con queste parole, tale regola ci ricorda che la Rivoluzione non è una bella parolina astratta, da sparare un po’ a caso perchè ci piace sognare e in certi ambienti fa pure figo. La Rivoluzione è uno sconvolgimento totale dello stato di cose presenti, è l’atto di instaurazione del Socialismo, che si costruisce concretamente passo passo. Invece mi sono accorta, in questi anni, di come molti comunisti abbiano accettato la narrazione dominante secondo cui il loro progetto sarebbe un’utopia. Non c’è nulla di più dannoso, perchè significa accettare l’impossibilità di un cambiamento di sistema; significa togliere valore alle esperienze socialiste che sono esistite ed esistono tutt’oggi e ridurle a elementi di folklore, invece che farne esempi reali da studiare e a cui ispirarsi.

Ma c’è solo una cosa che può trasformare una favoletta nostalgica in un obiettivo concreto da costruire: l’organizzazione dei lavoratori, altrimenti detta Partito Comunista. Si tratta “solo” di imparare ad essere materialisti, invece di limitarsi a ripetere la lezione a pappagallo nel migliore dei casi, o a non sapere proprio cosa questo significhi nel peggiore.

Queste due regole, com’è ovvio, non valgono solo per i giovani. Ma guardando un po’ queste nuove generazioni, mi pare di trovarmi di fronte a delle “tele bianche”, ben consapevoli che il mondo che affrontano non è all’altezza delle loro aspettative, ma scoraggiate di fronte alla presunta impossibilità di cambiarlo. Una legge di natura: nasci, cresci, vieni sfruttato, muori.

Il mio augurio per i compagni che hanno di fronte una militanza ancora lunga nei Giovani Comunisti non può dunque che essere quello di trovare la capacità di trasformarsi collettivamente in ciò che il loro compito storico richiede: le avanguardie della gioventù proletaria capaci di tingere di rosso quelle tele bianche.

Irene Bertozzi, Giovani Comunisti Massa Carrara

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