Una generazione. Un rapporto difficile con essa

“La modernità capitalista è un sistema che si basa sulla negazione dell’amore. La sua negazione della società, l’invidualismo senza freni, […] significano che non ci sono nemmeno le basi materiali dell’amore”. Abdullah Ocalan

gc bolForse è proprio questa la prima cosa materiale da ricostruire e da ripensare, il rapporto con una generazione, nuova, incomprensibile, chiusa in se stessa e che si apre con sempre maggiore difficoltà verso ogni elemento di collettivismo, una generazione che subisce l’individualismo e rischia di incamerarne definitivamente il fascino che chi crea il senso comune vuole far emergere. E il problema è proprio quello del senso comune, oggi costruito ed adattato su un fine preciso, ultimo e fondamentale per la macchina del capitale e per il motore del pensiero unico; la malcelata spinta verso l’omologazione, verso precostituiti modelli standard da seguire, da imparare, da imitare.

Un sistema che esclude i rapporti sociali e ripensa il modello di socialità modellandolo in nuovi contesti, in nuovi luoghi, in sempre più diffusi spazi virtuali; tutto ciò che ne consegue è la mancanza di ogni tipo di approfondimento, ed è l’apoteosi della superficialità, è il leit motiv che chiunque oggi ha la possibilità di osservare: leggere tutto, e soffermarsi su nulla, con una virata radicale del concetto di analisi e perfino di quello di gradimento: non un’analisi, un like. Non un testo, la lettura del suo titolo. Non un film, il trailer. Non un pensiero, un copia e incolla.

Durante i lavori della nostra conferenza è stato toccato il tema del rapporto tra il corpo della nostra organizzazione e le soggettività che ci prefiggiamo il compito di rappresentare, e ritengo sia stato un passo in avanti estremamente importante la declinazione di questo concetto sotto un punto di vista a mio avviso decisivo per comprendere fino in fondo la portata del nostro obiettivo: ovvero il fatto che quella generazione e le sue istanze, quell’insieme di giovani donne e uomini e la loro sofferenza, i loro dubbi, siamo noi, siamo noi stessi quella generazione, e quel destino precario fragile ed incerto che stanno disegnando è il nostro destino, costellato da quella sofferenza che abbiamo il dovere di trasformare in rabbia, quella fragilità che noi siamo in grado di trasformare in passione, in voglia di lottare ogni giorno affinché quel piano diabolico eppure così razionale e scientificamente distruttivo che i poteri forti, il capitale e la tecnocrazia (in altre parole l’assetto di poteri che oggi hanno gli strumenti  – economici, giuridici, sociali e politici per deliberare sulle nostre vite) stanno portando avanti, subisca un’incrinazione.

Aprire crepe, creare fratture, organizzare la rabbia, aprire lo squarcio del dibattito e del conflitto, quest’ultimo nient’affatto sopito, ma ancora troppo abbozzato e troppo poco strutturato. Siamo in grado di essere e dobbiamo essere la linfa vitale di chi non si arrende, di chi ogni giorno in ogni angolo di questo Paese conduce una battaglia e connettere quel terreno di lotta politica con il piano dell’elaborazione, dell’analisi.

Ma questa è solo una porzione, una parte, del fine che ci dobbiamo porre. Perché poi vi è l’altra faccia, l’altra metà del nostro compito, a mio avviso forse ancora più impegnativa ma anche estremamente affascinante: la capacità di dialogare e di fare “elaborare” tutti coloro che oggi sono distanti da questi pensieri, di chi oggi risente esattamente come noi degli effetti devastanti di queste politiche criminali, ma non ha gli strumenti e la forza per opporvisi. Chi resta apparentemente indifferente a questi processi (e la sensazione è che siano la parte maggioritaria) non deve assolutamente essere da noi considerato come un non-interlocutore, anzi è proprio lì che dobbiamo rafforzare la nostra azione: in ben altri contesti , fasi ed epoche qualcuno avrebbe parlato di “emancipazione dei popoli”, io mi limito a parlare di dialogo, di ascolto, ma soprattutto di comprensione dei motivi. Nessuno deve rimanere indietro, né tanto meno isolato. E’ un dato oggettivo che nel 2015 la quasi totalità delle giovani generazioni abbia la possibilità materiale e tangibile di avere un contatto con le informazioni, delle quali è palese che spesso vi sia un eccesso, sicuramente a livello quantitativo (e probabilmente anche qualitativo). Lo sviluppo tecnologico ha creato un’enorme gamma di possibilità di accesso a qualsiasi tipo di informazione, la fruibilità delle quali è un qualcosa di estremamente espanso, diffuso e capillare. Ciò che spesso manca sono appunto quell’insieme di strumenti che consentono la capacità di fare elaborazione, ciò di cui questa generazione oggi urgentemente necessita è paradossalmente proprio un filtro che funga da selezionatore di dati, quei dati che massificamente oggi creano l’estrema pericolosità del senso comune. E’ proprio lì che la nostra organizzazione deve avere la capacità di incidere, di indirizzare, di influenzare, di fare breccia: nel senso comune di questo Paese, invaso dalla martellante pervasività di tutti quei modelli che il capitale oggi propina senza soluzione continuità proprio perché è ovviamente esso stesso conscio delle loro due più evidenti caratteristiche strutturali: la loro nocività e la loro funzionalità a questo tipo di società.

E la nostra influenza sul senso comune si sviluppa proprio da qui: dal contrasto incessante e costruttivo a questa morbosa e pervasiva azione che gli organi di (dis)informazione e le degenerazioni dello sviluppo tecnologico compiono nelle vite di ciascuno. La perdita costante di riflessione su ciò che vediamo, che ascoltiamo, che leggiamo è la figura più sintomatica dell’assenza della messa in discussione, della assoluta desuetudine all’ interrogativo. Ed è qui che la capacità di mettere in dubbio diventa assai debole, e proporzionalmente la passività acritica diventa non solo forte, ma egemone.

La nostra storia e il nostro orgoglio ci impongono di raccogliere questa sfida, e nonostante gli errori e i difetti, il patrimonio di relazioni che abbiamo intrecciato devono costituire la spinta propulsiva di questa nostra azione: perché nemmeno noi siamo soli a combattere questa battaglia.

Il ripensamento del linguaggio e delle modalità di comunicazione con le soggettività che incontriamo e che abbiamo l’onere di rappresentare è un viaggio, un percorso, ma è proprio la contaminazione tra rappresentanti e rappresentati che rende questa strada ancora più necessaria da percorrere.

Le discriminazioni e le storture, le assurdità e le pagine peggiori di questa società del nostro tempo sono elementi che abbiamo davanti agli occhi, che affrontiamo ogni giorno, ed è solo mettendole in connessione ed allargando la platea di chi le contrasta che abbiamo davvero la possibilità di mettere in crisi un sistema che è a sua volta in crisi, proprio perché sta vincendo, tagliando sogni, precarizzando vite, uccidendo ogni giorno i concetti di umanità, di solidarietà, di uguaglianza, di equità, di giustizia sociale. Ecco io credo che riprendersi questi concetti e trasformarli in pratiche sia quanto di più nobile e importante per la vita di ognuno di noi.

Noi che , nella società di oggi , in uno schema di contrapposizione tra la macchina dell’ingranaggio e il piano di sabotaggio, abbiamo scelto da che parte stare, abbiamo decisamente, convintamente e radicalmente scelto in quale spazio e per quale fine agire.

A pugno chiuso, con rabbia e con passione.

FILIPPO VERGASSOLA
coordinamento nazionale Giovani Comuniste/i

13 novembre 2015

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