Ritenendolo di un certo interesse, anche solo a scopo di formazione-informazione tra noi, vi propongo la lettura di questo saggio, intitolato “Massimalismo”, di Francesco Giasi, pubblicato sull’ultimo numero della rivista “Italianieuropei. Bimestrale del riformismo italiano” (n. 3/2010). Interessanti in particolare le citazioni di Palmiro Togliatti e la spiegazione della differenza tra comunisti e massimalisti. (S. O.)
«Il massimalismo si potrebbe definire una forma singolare della disperazione politica. Consegue, infatti, allo stato d’animo di colui che non trova uscita alla situazione, si sente del tutto sopraffatto dal rapporto di cose e di uomini che lo circonda, da cui è dominato e ossessionato, e perciò cerca lo scampo in qualcosa di straordinario, di eccezionale, da cui dovrebbe scaturire un miracoloso radicale arrovesciamento.
La via di uscita che viene proposta non è però reale, non è una tappa che possa essere coperta con uno svolgimento razionale dell’azione, adeguata alla realtà, e non è nemmeno un salto possibile, da cui siano mature condizioni oggettive e soggettive. Non è una soluzione pensata, dunque, ma soltanto immaginata, e la proposta che se ne fa ha valore come gesto, non come atto efficace; è una manifestazione di insofferenza, degna di attenzione, ma scarsamente feconda di risultati. Nel movimento operaio il massimalismo è espressione di una scarsa maturità della coscienza politica e particolarmente si manifesta agli inizi, quando prevale ancora la negazione romantica, o in momenti di grave crisi della società, quando può sembrare che semplici parole siano sufficienti a modificare tutta una situazione e tutto il corso degli avvenimenti.
Si può però manifestare anche fuori del movimento operaio e indipendentemente da siffatti stati di crisi profonda».
1 Questa definizione di massimalismo venne proposta da Togliatti nel maggio del 1957 in polemica con alcuni politici e intellettuali (tra i quali spiccava il nome di Salvemini) che in occasione di un convegno organizzato a Roma dalla rivista “Il Mondo” avevano ricondotto i rischi di instaurazione di un regime «clericale» in Italia all’approvazione dell’articolo 7 della Costituzione. La proposta di «abolire il concordato» venne quindi spiegata da Togliatti con il costante e tipico atteggiamento massimalistico tenuto dagli intellettuali liberali e radicali nel valutare i rapporti tra Chiesa e Stato italiano. Il termine massimalismo entrò nel lessico politico all’indomani del Congresso tenuto dai socialdemocratici tedeschi a Erfurt nell’ottobre 1891.
Il programma approvato in quel Congresso era stato suddiviso in due parti: una parte teorica generale (programma massimo) e una rivendicativa (programma minimo) in quindici punti. Nella parte teorica si enunciavano i principi e si indicava l’abolizione del dominio di classe come obiettivo finale del movimento socialista. Tra le rivendicazioni immediate, invece, si chiedeva il suffragio universale (maschile e femminile), forme di decentramento amministrativo, libertà di espressione e associazione, obbligatorietà e gratuità dell’insegnamento in scuole pubbliche, assistenza sanitaria, tassazione progressiva, giornata lavorativa di otto ore e altre tutele per le classi lavoratrici. Questo schema venne adottato nelle successive assise e divenne un modello per gli altri partiti socialisti europei. Ben presto si determinò, però, una profonda divaricazione tra le due correnti che valutavano in maniera opposta il rapporto tra obiettivi ultimi e scopi immediati.
Lo scontro tra massimalisti e minimalisti si acuì quando Eduard Bernstein, che aveva collaborato con Karl Kautsky alle elaborazione del programma di Erfurt, contestando la tesi del crollo del sistema capitalistico e avviando una «revisione» dei capisaldi della teoria del socialismo, accentuò l’importanza dell’azione rivendicativa dei partiti socialisti giungendo a sminuire del tutto il programma massimo. Le tesi di Bernstein trovarono la loro celebre sintesi nel motto «il fine è nulla, il movimento è tutto», mentre il centro «ortodosso » kautskyano tentava di garantire una sintesi tra le due correnti che si configuravano sempre più nettamente come due contrapposte componenti del socialismo europeo. In Italia, dove lo schema di Erfurt fu adottato sin dal Congresso di Parma del 1895, la contrapposizione assunse particolari connotazioni.
Da una parte il gruppo dirigente riformista, capeggiato da Turati, che riuscì a guidare il partito sino all’indomani della guerra di Libia, dall’altra un insieme di sottocorrenti rivoluzionarie che si caratterizzarono per l’assenza di qualsiasi programma e per l’incapacità di superare i caratteri più primitivi del movimento socialista italiano quali il sovversivismo, il ribellismo e l’astensionismo parlamentare. Ma fu solo all’indomani della grande guerra che si costituì ufficialmente una componente massimalista. Al Congresso di Bologna del 1919 la mozione massima lista prevalse e l’ala riformista fu definitivamente messa in minoranza. Il raggruppamento di forze intransigenti e rivoluzionarie si sfaldò al Congresso di Livorno e i massimalisti continuarono ad avere la maggioranza nel PSI e a contrapporsi sia ai comunisti sia ai riformisti (espulsi nel 1922). Il termine assunse un’accezione negativa soprattutto ad opera dei comunisti, che lo impiegarono come sinonimo di inconcludenza rispetto agli obiettivi rivoluzionari. Gramsci nel 1925, criticando Amadeo Bordiga, sostenne che l’estremismo che aveva caratterizzato i primi tre anni di vita del PCI aveva matrici analoghe al massimalismo socialista.
2 Per Gramsci ciò che ispirava il massimalismo socialista era una concezione fatalistica della storia per cui i fini ultimi sarebbero stati raggiunti grazie a un inesorabile divenire storico che avrebbe portato ineluttabilmente a una società senza classi e che perciò svalutava l’importanza della lotta politica immediata e delle conquiste parziali. Questa concezione fatalistica si traduceva, a suo giudizio, nel «pronunziare grandi frasi rivoluzionarie» e nell’«essere incapaci a muovere un passo nella via della rivoluzione». Nel lessico politico italiano il termine ha conservato un significato dispregiativo. Esso è stato usato per lo più come sinonimo di estremismo, ma – seguendo la definizione propostaci da Togliatti – è bene non perdere di vista le connotazioni originarie. Il termine va definito innanzitutto in relazione agli obiettivi che una formazione politica intende conseguire e alla conseguente capacità di raggiungerli. In questo senso tendenze massimalistiche si possono presentare in qualsiasi partito politico e caratterizzare l’atteggiamento di gruppi intellettuali di diverso orientamento. Non a caso la definizione proposta polemicamente da Togliatti nasceva dalla critica a posizioni di intellettuali liberali e radicaldemocratici.
Seguendo il significato originario, la più classica manifestazione di mas simalismo si ha quando, rinunciando a possibili alleanze con formazioni politiche affini, vi è la pretesa di attuare integralmente il proprio programma. Una condotta massimalista è pertanto incompatibile con le politiche che prevedono delle alleanze e conduce per lo più le forze politiche all’immobilismo e all’isolamento. Il programma viene difeso con intransigenza, per quanto rischi di diventare lettera morta: proporne la revisione equivale a cadere nel tradimento e nell’opportunismo. Questa posizione dottrinaria nei confronti del programma – tipica di tutti i massimalismi – non spinge il soggetto politico a tener conto dei reali rapporti di forza. Se gli obiettivi proclamati prescindono dall’esame dei rapporti di forza e dalla fattibilità delle proposte avanzate si produce la tradizionale scissione tra propositi e azione, tra enunciazioni e prassi. In questi casi il massimalismo finisce per coincidere con il velleitarismo e l’astrattismo.
Non ponendosi la necessità di elaborare programmi fattibili, il massimalismo favorisce elaborazioni intellettualistiche del tutto astratte. Questa stessa scissione favorisce l’assunzione di pose radicali e tende a sostituire la strategia con il gesto e la trovata comunicativa ed espressiva.