12 DICEMBRE 1969: LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA A QUARANT’ANNI DALLA “MADRE DI TUTTE LE STRAGI”.
di Simone Oggionni e Bruno Steri
Rispetto ad altri anniversari, diffusamente celebrati sui nostri media, molto meno clamore sembra suscitare un quarantennale che cade questo 12 dicembre 2009: l’anniversario della strage nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano. “Il giorno delle bombe, della strage di Stato” recitava in quegli anni una canzone di lotta: quel pomeriggio persero la vita 17 persone, oltre a decine di feriti, investite dalla furia omicida di chi aveva deciso di cominciare a colpire nel mucchio. In questo senso, una furia cieca e, tuttavia, sin dall’inizio politicamente ben orientata: quella fu la prima di una serie di stragi che insanguinarono il nostro Paese, che ebbero l’effetto di suscitare nell’opinione pubblica un riflesso d’ordine e di bloccare l’avanzata delle sinistre. Fu il primo atto della “strategia della tensione”. Lo scorso 3 maggio 2005, la Cassazione ha chiuso un interminabile iter processuale, confermando l’assoluzione (per non aver commesso il fatto) degli ultimi imputati: nessun colpevole.
Cosa resta oggi di quella stagione politica? Cosa sanno i giovani di quella cruciale temperie storica? Se la memoria storica serve a costruire il futuro e se oggi capita di sentire che una fetta consistente degli studenti delle scuole superiori italiane addebita la strage alle Brigate Rosse, vuol dire che non siamo messi per niente bene. Ma, anche a rimanere nell’ambito di una cerchia di persone mediamente informata dei fatti, nella valutazione di quegli avvenimenti fa differenza l’avere più di cinquant’anni o l’averne meno di trenta. Rammemorare la stagione delle stragi equivale infatti a ricostruire un intero mondo politico che oggi – letteralmente – non esiste più. Quando esplosero quelle bombe, nel nostro Paese i comunisti erano assai vicini ad occupare la “stanza dei bottoni”, il Partito Comunista Italiano viaggiava su percentuali elettorali che prefiguravano la “presa del potere” per via democratica. E, contestualmente, gli albori dei movimenti a sinistra del Pci lasciavano intravedere – sulla scia del 1968 – un decennio di conflittualità progressiva. Due lussi (una presa del potere per via istituzionale e un conflitto di classe permanente dal basso) che il mondo diviso in blocchi non poteva permettersi. Chi visse quegli anni torbidi sperimentò in presa diretta a cosa equivalesse la propensione “sovversiva” delle nostre classi dirigenti nonché l’inflessibile durezza del “mondo libero”, quando il suo potere, in una delle sue roccaforti, veniva ad essere insidiato. In effetti, l’establishment – nazionale e internazionale – fu immerso fino al collo in quei bagni di sangue.
Categorie concettuali oggi da molti considerate desuete vivevano in quegli anni l’apice della loro tensione e della loro carica evocativa: perché davvero, con la violenza dello Stato e delle bande armate al servizio dei privilegi di classe, si concretizzava una reazione virulenta che ruotava intorno alla leva del potere e del suo utilizzo. Il potere detenuto da forze politiche organiche agli interessi delle classi dominanti; e il potere che le forze del movimento operaio ambivano a conquistare, sovvertendone l’indirizzo e il senso.
In questi giorni, oltre ad alcune iniziative di rievocazione e riflessione organizzate a sinistra, nel piatto panorama televisivo va segnalata in proposito una lodevolissima eccezione: la rubrica “La storia siamo noi”, che ha dedicato a questa vicenda una lunga puntata (andata in onda qualche sera fa a tarda ora), in cui è proposta una puntuale e non reticente ricostruzione. Un’occasione per tornare a riflettere e far riflettere – in un contesto tutto diverso – proprio su nozioni quali “violenza di Stato”, “rapporti di forza tra le classi”, “democrazia”, “sovranità limitata”. La trasmissione è stata conclusa da un’intervista a Guido Salvini, il giudice istruttore milanese che nel 1989 riaprì l’inchiesta sulla “madre di tutte le stragi”, indagando sull’eversione fascista, sull’intreccio tra quest’ultima e pezzi dello Stato italiano, sui collegamenti internazionali. La sua conclusione coincide con quello che veniva gridato allora nelle piazze: la strage di Piazza Fontana ha visto all’opera sin dall’inizio una regia occulta, “di Stato”, che ha orientato, depistato, insabbiato. Se ai giorni nostri, sull’altare dei superiori interessi dell’Occidente e per “esportare la democrazia”, vengono sacrificati civili iracheni e afghani, allora furono cinicamente messe nel conto decine di vittime italiane. Spetta a noi, ai Giovani Comunisti in particolare, il compito di trovare il modo per ritessere il filo della memoria e dedicare a questo come ad altri significativi momenti della nostra storia recente quell’attenzione che altri intendono spegnere.
L’esercizio critico della memoria ha un doppio valore: consente di trasferire la narrazione dei fatti in uno spazio collettivo sottratto al revisionismo e funzionale alla costruzione di una identità solida, storicamente fondata. E insegna a non essere impreparati di fronte alle sfide che la Storia ripetutamente ci impone di fronteggiare.