Genova per noi… che non c’eravamo

Genova 2001 ci parla ancora della necessità della convergenza, della costruzione di un campo di forze per l’alternativa capace di contenere in modo non gerarchico tante e diverse identità, culture, provenienze, generi, generazioni, tematiche. Genova era avanti, non possiamo permetterci il lusso solo di ricordare e tornare indietro. Dobbiamo proseguire il cammino.  Genova non era una fiammata, Genova veniva da lontano e, soprattutto guardava lontano. Genova era frutto delle evoluzioni di lotte e movimenti. Genova non era l’arrivo ma la partenza. Di questo però, è giusto che ne parli chi a Genova c’era, chi l’ha vissuta.

Il tempo è stato cattivo con noi, siamo venuti dopo, eravamo troppo piccoli. Spesso coincide anche col primo ricordo politico che abbiamo: il TG1 che apre con l’edizione straordinaria, gli scontri, con Carlo. Per questo vorremmo provare a mettere al centro anche altro. Genova era avanti, di Genova dobbiamo ricordare, ma soprattutto seguirne il cammino.  Genova 2001 ci parla ancora della necessità della convergenza, della costruzione di un campo di forze per l’alternativa capace di contenere in modo non gerarchico tante e diverse identità, culture, provenienze, generi, generazioni, tematiche. Vogliamo parlare di Genova non solo limitandoci al ricordo – sempre necessario – quanto piuttosto provare a far diventare questo ventennale un luogo di incontro e di condivisioni di esperienze e pratiche capace di fronteggiare una società basata sulle disuguaglianze. Se un altro mondo è possibile non perdiamo questa occasione, sfruttiamola per guardarci nuovamente negli occhi. Dobbiamo ricostruire quella legittimità capace di far nuovamente paura ai grandi della terra, 8 o 20 che siano.

Dobbiamo intervenire sui cambiamenti climatici, togliere questo tema dalle grinfie del capitale, far emergere la contraddizione capitalismo-natura. Rimettere al centro la capacità – così come quel movimento faceva – di gestire l’innovazione tecnologica ribaltandone il senso e allo stesso momento costruire spazi fisici che rompano le nostre bolle – di solitudine – sociali. Basta inseguire, dobbiamo correre per primi.

Ricostruire luoghi inclusivi e, soprattutto accessibili. Accessibili anche per il poco tempo che il nostro popolo ha a disposizione dopo giornate di lavoro interminabili. Ci sono 5 milioni di italiani che vivono sotto la soglia di povertà, 7 milioni di abitazioni vuote. E’ lì che dobbiamo intervenire. Rimettiamo le mani nella merda. Non sprechiamo questi giorni solo col ricordo, ricostruiamo ciò che ci spetta, proviamo a dare nuovamente forma ai nostri sogni, risposte alle domande. Per questo Genova non finisce con le giornate del luglio 2001: il suo bagaglio di eredità persiste ancora oggi e va compreso, fatto riassaporare.


Come si spiega Genova a chi non l’ha vissuta? Oggi i ragazzi e le ragazze che si informano su quanto è accaduto nel capoluogo ligure vent’anni fa si dividono in due categorie: chi non c’era ma ricorda e chi non c’era e ha conosciuto solo dopo. Io a appartengo alla prima categoria, ovvero quelli troppo piccoli per essere a Genova in quei giorni e forse per avere una coscienza politica. Era il 2001, era estate, le immagini provenienti da Genova erano sassate che arrivavano attraverso i televisori dentro ogni casa. Sassate vere (più di quelle dei presunti Black bloc) che aprivano contraddizioni, che forzavano le famiglie a chiedersi i perché, a dover spiegare le violenze e la morte di un giovane ragazzo ai propri figli.

Questo è quello che ricordo principalmente di quel fine settimana di luglio. Le mie richieste di spiegazioni ma anche una forte e inspiegabile empatia verso quel giovane ragazzo ucciso. Una morte cercata, voluta e studiata per dare senso a giornate di violenze, abusi, torture. Quella tragica vicenda si sarebbe sommata dopo poco più di un mese ad altre immagini potenti come lo schianto di due aerei contro il World Trade Center. Seguirono le guerre in Afghanistan e in Iraq, il movimento per la pace, le bandiere arcobaleno ai balconi, gli ultimi movimenti studenteschi.

Forse è questo il contrappasso della nostra generazione nata negli anni Novanta, aver visto in TV un intero decennio di mobilitazioni e conflitti sociali senza aver mai agito pienamente in quelle pratiche ed esperienze. Come cantava Gil Scott-Heron “The Revolution Will Be Not Televised”, la rivoluzione non passerà in TV. Un invito significativo che vale ancora oggi in cui ci è rimasto solo il deserto che quella moltitudine attraversava in tutto il mondo. La voce del movimento dei movimenti fu un voce nel deserto, oggi siamo qui a ribadire quelle rivendicazioni pur dovendoci confrontare con difficoltà maggiori. Ma resta un dato di fondo, ovvero l’esplosione di una diseguaglianza senza confini che si riflette in tutti i campi: clima, società, risorse alimentari, lavoro, istruzione, futuro. Il passato ci fornisce esempi e strumenti per interpretare il presente. Oggi dobbiamo essere capaci di tirare una linea che chiuda anche l’eredità politica di quell’epoca che ha connotato le vicende dei movimenti e delle sinistre in Italia. Fare tesoro di quell’esperienza, riaffermarne ragioni e valori, dotarsi di nuove parole e mezzi per affermare che un altro mondo è ancora possibile e soprattutto necessario.

Stefano Vento e Vincenzo Colaprice – Esecutivo nazionale GC