Medio Oriente: una leadership contesa

Non un decennio senza ostilità dal termine del secondo conflitto mondiale e neanche il prossimo sembra essere quello buono. E’ il triste record del Medio Oriente che non riesce a imboccare la strada giusta per fermare le crisi in Siria e Yemen, mentre altre si fanno strada nella regione. 

Un tempo l’ordine regionale era garantito da una potenza sunnita, l’Egitto, con il sostegno degli Stati Uniti; ora invece l’Egitto sembra incapace di emergere dalle sue problematiche interne, impedendogli di svolgere il suo tradizionale ruolo. Nel 2008 con l’elezione di Barack Obama gli Stati Uniti hanno cambiato il loro approccio nell’area, tanto da portare il direttore della rivista The Atlantic Jeffrey Goldberg ad affermare “il Medio Oriente non è più tremendamente importante per gli interessi americani”. Un approccio basato su una relativa riconciliazione con la Russia, parziale ritiro delle forze statunitensi in Iraq e maggior dialogo con l’Iran. La Primavera Araba e con essa la caduta di alcuni regimi di lunga data, ha creato un vuoto di potere nella regione e il conseguente emergere di nuovi attori regionali: Iran e Arabia Saudita in testa. L’Arabia Saudita ha cambiato la sua politica tradizionale basata sull’arbitrato e la mediazione. Nel 2011 il governo di Riyad ha usato la forza per mantenere la dinastia sunnita al potere in Bahrain, nel 2013 ha sostenuto il colpo di Stato di al-Sisi contro il Presidente egiziano Mohamed Morsi e più recentemente è intervenuta militarmente in Siria e nello Yemen contro i ribelli sciiti appoggiati dall’Iran: ora i sauditi provano a guidare. Sin dalla prima guerra del Golfo il governo di Riyad si era dimostrato un alleato fedele permettendo agli Stati Uniti di far stazionare 200mila truppe nel paese. Contingenti americani in quantità minore sono tuttora presenti nella zona allo scopo di intraprendere una serie di sforzi di cooperazione contro il terrorismo. Durante il suo secondo mandato Obama ha ripetutamente rimproverato il suo alleato per il sostegno all’Islam wahhabita in Siria e lo ha esortato a condividere il vicinato con l’Iran, ma questo non è accaduto. Al contrario l’attuale Presidente Trump, nonostante gli sforzi del Congresso nel provare ad interrompere l’appoggio militare americano ai sauditi in Yemen, ha posto il veto. Secondo i dati forniti dall’FMI, l’Arabia Saudita nel 2014 nel pieno delle crisi siriana e yemenita è risultata il più grande importatore mondiale di armi spendendo $ 6,46 miliardi, mentre attualmente è emersa come il terzo paese al mondo per spesa militare. 

I rapporti tra Arabia Saudita e Iran sono gradualmente peggiorati dallo scoppio delle rivolte arabe nel 2011. Le proteste partite da Sidi Bouzid in Tunisia hanno preso forma di guerra civile in Siria e Yemen. Nel maggio 2011 con un discorso al Dipartimento di Stato Obama ha delineato come gli Stati Uniti non avrebbero assunto la guida dei movimenti di protesta, ma allo stesso tempo avrebbero svolto un ruolo chiave nel sostenere l’aspirazione di alcuni attraverso assistenza economica e coordinando una risposta regionale. Le vecchie categorie stabilite da Bush secondo cui “o sei con noi o sei contro di noi” non risultavano più funzionali in una rivolta che aveva sfidato il nucleo della grande strategia neoconservatrice americana di Bush. Nel 2011-2012 l’unica attività di “primavera araba” che si è svolta in Arabia Saudita è stata nella provincia sciita orientale. Con il pericolo di un Iran nuclearizzato, l’Iraq ormai a guida sciita e l’ISIS dappertutto, il re Salman ha lanciato una politica più vigorosa e gli sciiti sauditi hanno pagato ancora una volta il prezzo più alto. L’Arabia Saudita infatti considera l’Iran il leader di un blocco sciita regionale e la più grande minaccia alla stabilità e sicurezza interna del regno e della regione. 

Allo stesso tempo dopo la caduta di Saddam Hussein, l’Iran ha creato il cosiddetto “Asse della Resistenza” con Iraq e Siria in opposizione a Stati Uniti e Israele, e dal 2009 ha esteso il proprio sostegno ai ribelli Houthi nello Yemen. Gli Houthi sono un gruppo sciita zaydita, una setta molto particolare dello sciismo di cui fa parte circa il 35 per cento della popolazione musulmana yemenita. Gli Houthi hanno sempre negato di avere legami con l’Iran, ma come sostenuto da un alto  funzionario della sicurezza yemenita all’agenzia britannica Reuters, sembra che combattenti Houthi abbiano ricevuto addestramenti da Hezbollah e armi dall’Iran. Quando l’Arabia Saudita ha deciso di intervenire militarmente nello Yemen per reprimere i ribelli, il tenore delle forze in campo aveva fatto pensare ad un rapido epilogo del conflitto. Al contrario oggi a circa cinque anni dall’avvio delle ostilità, con il conseguente ritiro degli Emirati Arabi Uniti e con i ribelli in controllo di diverse aree e della capitale Sana’a, il regime di Riyad si trova in piena difficoltà ed incapace di invertire le sorti del conflitto. 

Negli stessi anni la Siria è diventata la principale arena di guerra per procura saudita iraniana. Il ruolo delle organizzazioni terroristiche salafi-jihadiste in Siria ha intensificato il fattore settario e ha messo in relazione le organizzazioni ufficiali saudite wahhabite e le organizzazioni salafite-jihadiste. Nella lotta al terrorismo, l’occidente è in guerra con uno ma fa accordi commerciali e vende armi al suo diretto finanziatore. La stessa Hillary Clinton in una dichiarazione confidenziale poi trapelata grazie a Wikileaks, aveva riconosciuto il supporto finanziario e logistico all’ISIS dato dai sauditi. Ancora, in una relazione del giugno 2017, l’Istituto per gli affari del Golfo ha pubblicato un rapporto investigativo esclusivo evidenziando come centinaia di cittadini sauditi che vivono negli Stati Uniti si fossero uniti all’ISIS. L’intervento di Tehran nel conflitto siriano in sostegno di Assad attraverso la fornitura di munizioni e sistemi di informazione, sono risultati essenziali per riequilibrare le parti in campo. Non solo un intervento dettato dalla storica alleanza iraniano siriana, ma un attenta valutazione sulla pericolosità della nascita di un governo sunnita in Siria a guida saudita. Sulla base delle sue dimensioni, della popolazione e del retaggio storico, l’Iran si considera il potere regionale naturale; al contrario l’Arabia Saudita si considera il leader naturale nel Golfo. Con gli Sciiti adesso in posizione di leadership a Bagdad, Hezbollah in Libano e la Siria ancora nelle mani di Assad, l’Iran è riuscita ad entrare nel cuore del Medio Oriente dopo decenni di isolamento.  

Le crisi siriana e yemenita seppur nate da problemi di carattere interno, si collocano in un quadro più ampio di instabilità regionale per la lotta alla leadership nel Medio Oriente. La regione, da sempre teatro di lunghi e violenti conflitti dalle profonde radici storiche e religiose e grandi interessi di potere interni ed esterni, sembra sul punto di esplodere. Iran e Arabia Saudita entrambe ambiziose nell’estendere la propria sfera di influenza, sono entrate nei conflitti siriano e yemenita ognuna sostenendo le proprie parti in gioco. Inoltre i rapporti dell’Arabia Saudita con l’ISIS  e il sostegno dell’Iran ad organizzazioni sciite hanno connotato il conflitto di un forte settarismo su base etnica e religiosa. Nonostante l’Iran sembrerebbe trovarsi in una posizione di vantaggio rispetto al proprio concorrente regionale, i nuovi risvolti in Siria farebbero pensare ad un possibile sganciamento momentaneo di Tehran da Damasco. Questo come conseguenza non solo delle mosse di Turchia e Russia nel paese, ma anche in virtù dei forti movimenti di protesta che stanno destabilizzando Iraq e Libano. La situazione nella regione resta fortemente instabile. Nessuna delle parti sembra avere la forza e gli strumenti giusti per prevalere. Al contrario i civili dal canto loro sembrano aver ritrovato fiducia per continuare a lottare per un prossimo decennio diverso dagli altri. 

Pietro Pasculli – Dipartimento esteri GC

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