Orange is the new black. Sulle elezioni americane e noi

La voce sommessa di Enrico Mentana la mattina del 09.11.2016 su LA7 sembrava quella di chi avesse appena ricevuto un pugno allo stomaco. E in effetti il pugno allo stomaco c’è stato, e pure bello forte: la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali degli USA non era certo quello che l’establishment finanziario, economico e anche culturale sperava e si aspettava.

L’incredulità per una tale vittoria, dopo il dispiegamento di forze soprattutto mediatico in appoggio a Hillary Clinton, potrebbe però essere giustificata solo da uno sguardo poco attento. La frattura, insanabile, tra colei che rappresenta, anche e soprattutto simbolicamente, l’establishment, e la gente comune degli USA , impoverita dalla crisi, era già evidente con l’emersione della candidatura di un personaggio come Bernie Sanders.

Fatto Fuori Sanders, che unico poteva competere sullo stesso piano del nuovo presidente degli Stati Uniti, la Clinton ha dichiarato la propria condanna a morte.

Ma come può un miliardario dallo stile di vita irraggiungibile dalla totalità della popolazione mondiale essere stato considerato dalle persone normali un argine alla dittatura economica e culturale degli squali di Wall Street?

La vittoria di Trump ci sbatte in faccia una realtà delle cose già in qualche modo evidente: gli anni dieci del ventunesimo secolo saranno con tutta probabilità ricordati come il periodo populista della storia occidentale.

Un periodo storico conformato dalla crisi, e che già dagli anni novanta del secolo precedente aveva perso ogni argine ideologico su cui costruire delle identità collettive. E in un contesto dove le identità politico-ideologiche non esistono più, fatte sparire prima dai progressisti che dai reazionari negli anni scorsi, e quelle sociali si sono anche materialmente frantumate, la capacità condensante (anche se contingente e legata a un determinato momento storico e a un preciso territorio) di chi riesca ad individuare delle tematiche di identità comune, in contrapposizione ad un nemico conosciuto e riconoscibile dalle persone, ha una forza dirompente.

Questa pratica politico-discorsiva è ciò che si può definire come populismo, e che sola è stata in grado di generare capacità aggregativa e costruzione del consenso in questi anni disperati.

È pratica, non ideologia. Il populismo è privo di ogni capacità descrittiva del mondo, e forse proprio per questo è in grado, nella atomizzazione del presente, di ricostruire fronti e identità: e così, l’arancione diventa il nuovo nero, e la carica emancipatrice che potrebbe avere un popolo impoverito viene utilizzata da un tycoon spregiudicato.

Ma una pratica politica “neutra” può essere messa al servizio di ogni causa, anche di quella che rincorre la giustizia e l’uguaglianza e che si propone di ribaltare i rapporti di forza e di potere dell’attuale sistema economico. Ed è su questo che, come comunisti e comuniste in Italia, dovremmo iniziare a ragionare, anche per ricostruire le basi di un dissenso diffuso e di massa al sistema economico capitalista che oggi altrimenti sarebbe quasi impronunciabile.

Si può fare e si deve fare, abbandonando ogni tipo di connessione, anche linguistica, con il sistema di potere dominante e, navigando in mare aperto, stare in mezzo al senso comune e trovare le leve giuste per costruire consenso (e popolo) attorno a dei fronti di uguaglianza e non di paura. La costruzione del popolo deve essere la nostra battaglia egemonica.

Perché oggi Trump, domani Le Pen, e noi rinchiusi nel nostro iperuranio a dibattere sul perché nessuno ci capisce. È una responsabilità (storica) che non possiamo più permetterci.

CLAUDIA CANDELORO – Portavoce Nazionale Giovani Comunisti/e

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