The Dark Side of the Memos. Il testamento politico di Calvino

italo-calvino[Trent’anni fa moriva Italo Calvino].

Può essere una buona idea cominciare con due affermazioni semplici semplici:
Italo Calvino è uno scrittore italiano, nato a Cuba il 15 ottobre 1923 e morto a Siena il 19 settembre 1985.
Italo Calvino è stato per tutta la vita un militante comunista.
Tutte e due queste frasi sono altrettanto vere, addirittura ovvie; eppure, se usciamo d’Italia, e soprattutto nel circuito delle università anglosassoni, la seconda rischia di apparire persino sorprendente. Calvino? Italo Calvino? Lo scrittore della narrativa combinatoria? L’emulo di Jorge Louis Borges? L’amico di George Perec? Il teorico della «Leggerezza»? Lo stesso Calvino? Comunista? Proprio lui?

Almeno in Italia, che Calvino sia stato comunista non suona ancora come una novità, ma con il passare degli anni anche qui la sua attività politica e ancora più la carica politica di tutta la sua opera vengono messe sempre più tra parentesi. In parte, certo, è quello che succede sempre con i classici. Ma in questo caso si avverte pure una gran voglia di dimenticare un intero pezzo della nostra recente storia. Tanto più per questo conviene passare in rassegna velocemente alcuni semplici fatti.

Calvino era un militante comunista quando ha fatto la Resistenza in Liguria. Era un militante comunista quando lavorava per l’edizione torinese de “L’Unità” (allora quotidiano ufficiale del PCI), tra il 1948 e il 1949. Era un militante comunista nel 1957, quando difendeva La caduta di Berlino, il film di propaganda stalinista diretto da Michail Ciaureli sulle imprese dell’Armata Rossa durante la seconda guerra mondiale. Era un militante comunista in quello stesso 1957, quando è uscito dal Partito Comunista Italiano assieme ad alcune centinaia di altri intellettuali, in polemica contro l’appoggio all’invasione dell’Ungheria. Era un militante comunista quando si è trasferito a Parigi nel 1968, e si è subito dovuto confrontare con il “Joli Mai”, in aperta polemica con i Partiti marxisti ufficiali (ce ne ha lasciato una lettera magnifica e troppo poco nota, dalla quale vale la pena di citare qualche frase: «Viviamo le ultime giornate della straordinaria città senza macchine né metro, con code ai negozi, poi il discorso di De Gaulle, le macchine dei gollisti clacsonanti che cercano di penetrare nel Quartiere e sono scacciate, la Sorbona che sembra una fortezza assediata, con katanghesi appostati e i giovani che s’aspettano il peggio e maledicono i comunisti. Nottate in cui non si fa che girare a piedi tra continui allarmi in un clima di eccitazione continua. (…) Mi pare che qualcosa stia davvero cambiando in Europa. Certo si andrà verso l’organizzazione d’una nuova forza rivoluzionaria anche operaia, mentre ormai la via dei partiti comunisti è irreversibile come quella della socialdemocrazia alla vigilia della prima guerra mondiale. L’interrogativo su fino a che punto la reazione potrà spingersi sulla via del fascismo sembra non preoccupare i giovani rivoluzionari: e chissà, forse è giusto, perché viviamo tempi talmente diversi da quelli del nostro passato e le cose saltano fuori sempre diversa da come si possono prevedere»). Era un militante comunista quando nel 1974, sul “Corriere della Sera”, ha ricordato il proprio stalinismo degli anni Cinquanta con parole serene e tutto sommato niente affatto apologetiche. Ed era un militante comunista, quando tre anni dopo, sulle stesse pagine ha elogiato quella che chiamava «la disciplina militare» del PCI, da lui definita «la sua più preziosa eredità storica, che speriamo riesca a salvare dagli assalti ideologici» (sottinteso: della nuova sinistra movimentista e genericamente libertaria). Ma gli esempi, spero si intuisca, si potrebbero moltiplicare a piacimento.

Come suggeriscono anche solo questi frammenti, la storia di Calvino militante comunista si lascia raccontare da molte prospettive diverse, interne o esterne ai suoi testi. Può essere interessante però farlo da quella più difficile, cioè partendo dalla sua opera saggistica più nota nel mondo, sino a diventare una sorta di manifesto del postmodernismo internazionale: i Six Memos for the Next Millennium, scritti nel 1985 e apparsi postumi nel 1988. Anche qui infatti, nel punto apparentemente più distante dall’impegno che lo ha accompagnato tutta la vita, la passione politica di Calvino emerge in maniera prepotente, nonostante gli studiosi abbiamo preferito interpretarlo come il testo di un formalista ormai lontano dalle lotte degli anni precedenti. A rileggere queste pagine con attenzione ci si rende conto che le cose stanno in maniera non poco diversa.

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Six Memos furono originariamente concepito come serie di lezioni da tenere a Harvard nel quadro del prestigioso ciclo delle Norton Lectures, proprio nell’anno in cui Calvino morì. Come è noto, si tratta di una riflessione su sei virtù letterarie che Calvino, approssimandosi la fine del XX secolo, si riproponeva di consegnare ai lettori, soprattutto più giovani, del secolo si sarebbe aperto di lì a poco. Un evento accidentale quanto irreparabile – la morte dell’autore, quando il manoscritto non era ancora compiuto – ha determinato la struttura delle così dette Lezioni americane quali le conosciamo oggi. A conclusione del suo percorso, Calvino aveva infatti previsto una sesta conferenza dedicata alla «Consistency» (coerenza), conferenza che progettava di scrivere una volta arrivato in America e i cui materiali preparatori, se in possesso della famiglia, non sono mai stati pubblicati.

Questa perdita è un peccato, perché sarebbe bello sapere qualcosa di più sulle idee di Calvino in merito alla «Consistency» (mi viene da dire: specialmente in merito alla «Consistency»), ma è anche un ottimo punto di partenza per parlare dei Six Memos nel loro complesso. Naturalmente, infatti, non è impossibile provare a immaginare almeno in parte che cosa Calvino avrebbe scritto in questo ultimo capitolo. La raccolta standard dei saggi di Calvino occupa circa quattromila pagine e include non più di due terzi dei testi da lui pubblicati in vita, forse anche meno. E qualche volta in questi scritti il valore letterario della coerenza fa capolino.

Può essere interessante rilevare che almeno in una occasione, in uno dei suoi saggi peraltro più famosi, vale a dire nella riflessione compiuta “vent’anni dopo” sul suo romanzo d’esordio, Il sentiero dei nidi di ragno, Calvino prende espressamente posizione contro la coerenza. Tutti gli amici che avevano letto il libro prima della pubblicazione – racconta Calvino – gli avevano rimproverato lo stesso presunto errore. Mentre il resto del romanzo era narrato dalla prospettiva di un bambino che non comprende davvero gli eventi grandi e terribili nei quali è stato coinvolto (la Resistenza italiana), verso la fine del libro Calvino aveva inserito un improvviso cambio di registro per dare la parola a un più maturo commissario politico comunista, in modo da spiegare ai lettori quale era il senso di quella lotta dalla prospettiva più matura dell’autore. In nome della «omogeneità» gli amici gli suggerirono unanimamente di tagliare quel capitolo; come scrive Calvino «a quel tempo, l’unità stilistica era uno di pochi criteri estetici sicuri». Ma Calvino tenne duro lo stesso, sino a rivendicare a distanza di tanto tempo la decisione di allora.

Il lettore delle Lezioni americane non si sorprenderà di questa presa di posizione, ma non dovrà neanche ricorrere a concetti cari agli storici della letteratura come quelli di evoluzione, oscillazione o ripensamento per spiegare il presunto contrasto tra il giudizio del 1964 e il giudizio del 1985. E il lettore delle Lezioni americane non si sorprenderà perché è lo stesso Calvino, all’inizio della prima delle sue riflessioni a spiegare con grande chiarezza che ai sei valori da lui scelti non corrispondono sei difetti, ma altri sei valori forse altrettanto preziosi. Come scrive Calvino: «Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza/peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’avere più cose da dire».

Anche se questa notazione a proposito della coppia Leggerezza/Peso non viene ripetuta in termini altrettanto espliciti a proposito delle altre quattro virtù, non c’è motivo di pensare che le cose siano molto diverse per la Rapidità, l’Esattezza, la Visibilità e la Molteplicità. Se in questo caso Calvino lo esplicita è solo perché di tutte le qualità prescelte la più scandalosa era senza dubbio proprio la Leggerezza, che, nella cultura italiana degli anni Ottanta, ancora molto politicizzata, veniva fatta coincidere con il disimpegno. Nelle quattro lezioni successive Calvino si limita infatti a mostrare come attraverso il valore da lui lodato possa essere conseguito anche il valore opposto, come nel caso della suprema virtù della Vaghezza (frutto di una precisione assoluta), o come nel caso della Molteplicità, che viene interpretata come dominio su caos e sul caso e capacità di produrre varietà a partire da alcuni principi ordinatori. Niente sarebbe dunque più sbagliato che scambiare le Lezioni americane per un ricettario molto sofisticato per scrivere buoni racconti, seguendo determinate virtù ed evitando determinati vizi.

In questo modo di procedere c’è anche un altro aspetto che merita di essere considerato attentamente. Nell’ordine in cui Calvino dispone le sue sei virtù letterarie, prima che lui chiarisca in quale accezione le adoperano, alcune sembrerebbero contraddire la virtù che le precede. Se la Rapidità si sposa bene con la Leggerezza, nella percezione comune l’Esattezza non sembra andare molto d’accordo con la Rapidità. Allo stesso modo, mentre la Visibilità e l’Esattezza sono chiaramente imparentate, la Molteplicità e la Coerenza si direbbero più difficilmente conciliabili. Definendo con precisione questi valori, i diversi capitoli mostrano che tali potenziali contraddizioni dell’indice sono solo apparenti, ma volutamente non sciolgono la tensione. Per questo, quando provo a fare delle ipotesi sulla sesta lezione mai scritta, mi piace immaginare Calvino impegnato in un ipotetico corpo a corpo con il famoso saggio di Leo Spitzer sulla accumulazione caotica nella tradizione poetica occidentale.

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La morte di Calvino ha contribuito a fissare il suo lascito intellettuale a quel 1985 come in un fermo immagine, ridimensionando il cammino tortuoso che lo avevano condotto a quella sua ultima proposta di poetica. Ma per chi conosce il suo percorso artistico e politico è impossibile non pensare che per tutta la sua vita Calvino è stato senza dubbio uno scrittore del Peso: un intellettuale formatosi negli anni più freddi della Guerra fredda culturale e che soprattutto non ha mai rinnegato quella stagione, ma ha piuttosto cercato incessantemente di allargare il proprio sguardo senza mettere in discussione gli assunti di partenza. Da questo punto di vista la Leggerezza delle Lezioni americane è una Leggerezza che si aggiunge al Peso e che lo completa. Ed è la virtù più desiderata perché anche quella più difficile da conseguire per chi in Italia muoveva da premesse come quelle di un intellettuale-militante quale Calvino.

Se questa intuizione è giusta e se dunque Calvino ha pensato sin dall’inizio il suo libro per coppie, le sei virtù letterarie delle Lezioni americane dialogano costantemente con i loro opposti. Vale a dire, per l’appunto: Peso – Lentezza – Vaghezza – Invisibilità (o magari Acusticità) – Singolarità – Arbitrarietà. Enunciato così, potrebbe essere l’indice di un libro assai promettente ancora tutto da scrivere. E se, a distanza di quasi trent’anni dal volume di Calvino, dovessi indicare in cosa consiste il suo lascito più duraturo, piuttosto che a questo o a quel capitolo, mi riferirei a questo pensare per coppie.

Mentre buttavo giù l’ultimo paragrafo ho scritto e poi cancellato un avverbio: dialetticamente. Si tratta di un punto importante, perché per Calvino quel modo di ragionare per coppie era una novità e in qualche modo una conquista. Per una generazione di militanti politici cresciuti a pane e dialettica, il numero magico non era il due, ma il tre, come i tre momenti della Tesi, dell’Antitesi e della Sintesi. La storia era fatta di contrapposizioni frontali, ma queste contrapposizioni acquistavano un senso solo alla luce del loro superamento in una conciliazione degli opposti.

In una cultura imbevuta di Hegel e di Marx attraverso Benedetto Croce e Antonio Gramsci si trattava di nozioni imprescindibili: solo il numero tre assicurava l’uscita da quella che altrimenti sarebbe stata una paralisi della storia e del pensiero. Proprio la generazione di Calvino, però, si era trovata sempre più a disagio con questo auspicato momento sintetico. Calvino era un lettore infaticabile di filosofia per la casa editrice Einaudi e si era presto familiarizzato con la riflessione di Theodor Adorno, a cominciare proprio dal suo rifiuto di ogni esito consolante. La grande arte aveva direttamente a che fare con l’esperienza della negatività e della negazione, ma nessuna restaurazione dell’ordine perduto era visibile all’orizzonte, forse nemmeno auspicabile.

In quegli anni la sfiducia nei confronti della sintesi andò spesso di pari passo con la crescente disillusione verso il realismo socialista e verso la stessa Unione Sovietica da parte dei marxisti italiani. Per molti intellettuali coetanei di Calvino, il rifiuto dialettica si tradusse a poco a poco nel progressivo allontanamento da qualsiasi attività politica o al contrario con quella che si potrebbe definire una sorta di “critica della critica”. È in particolare il caso di uno scrittore come Leonardo Sciascia. Sciascia giunse a fare definitivamente i conti con le radici hegeliane della cultura comunista soprattutto attraverso la lezione di Foucault e la sua riflessione sui sistemi di controllo, approdando per questa strada a prendere posizioni ampiamente paradossali in qualità di intellettuale pubblico, come nella sua dura polemica contro i giudici impegnati in prima linea nella lotta contro la criminalità organizzata nel Meridione d’Italia. Una sorta di conferma di come ogni antitesi dell’antitesi rischi troppo spesso di assomigliare pericolosamente alla tesi che all’inizio si voleva combattere.

Anche Calvino evidentemente cercava una via d’uscita, ma non era disposto a rinunciare alla sua scelta di campo. È in questo clima che occorre collocare l’implicita struttura a coppie delle Lezioni americane, e in particolare nel contesto del progetto di una delle tante riviste immaginate (e non realizzate) da Calvino a partire dagli anni Sessanta. Tra il 1974 e il 1976 Calvino lavorò intensamente al progetto di una rivista assieme a Claudio Rugafiori e a Giorgio Agamben. Nei loro piani ogni numero avrebbe dovuto ruotare attorno a coppie concettuali come Commedia/ Tragedia, Architettura/ Vaghezza, Lingua materna/ Lingua morta, Biografia/ Favola, Stile/ Materia, Legge/ Creatura o Filologia/ Diritto. Calvino, allora, scelse di lavorare attorno ai due concetti di Leggerezza e di Velocità: e ci sono pochi dubbi sul fatto che dieci anni dopo le Lezioni americane conservino una traccia di quel modo di procedere binario per coppie complementari che non implicano nessuna contrapposizione tra virtù e vizi. Il modello, chiaramente, è quello delle grandi categorie della linguistica e dello strutturalismo allora di moda: langueparole, paradigma/ sintagma, diacronia/ sincronia. Anche se ad Agamben, Calvino e Rugafiori si può riconoscere maggiore fantasia nella scelta delle loro coppie, si può ancora riconoscere l’influenza di Barthes, Greimas e Benveniste in quel progetto abortito.

L’ultimo libro di Calvino deve sicuramente moltissimo a quella riflessione. E tuttavia, proprio perché non procedono per coppie (almeno non in maniera esplicita), le Lezioni americane testimoniano di un nuovo stadio della riflessione di Calvino, chiaramente insoddisfatto della dialettica, ma non del tutto a suo agio con lo strutturalismo e la sua pretesa di abolire il tempo e la storia (come narratore strutturalista, in effetti, Calvino farà esattamente il contrario, usando per esempio la griglia dei tarocchi per mettere in moto un racconto o per far viaggiare con l’immaginazione l’immobile Kublai Khan).

Le Lezioni americane non sono prescrittive (come succederebbe se fossero un ricettario per scrivere buona letteratura), ma non sono nemmeno ecumeniche, perché Calvino non rinuncia a prendere posizione, cosa che – nel caso delle coppie strutturaliste – evidentemente non è possibile, perché non avrebbe nessun senso parteggiare per la languecontro la parole o per la sincronia contro la diacronia. Nel caso delle conferenze per Harvard chiaramente non è così. Non tutto si equivale, e l’autore dichiara immediatamente da che parte ha scelto di collocarsi offrendoci la sua lista di sei virtù. Ma della lunga familiarità con la dialettica a Calvino rimane anche nell’ultima opera una particolare passione per il verso che può sempre contestare il recto e per il valore della negazione.

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Ogni volta che ho riletto le Lezioni americane – cosa che è successa più o meno ogni dieci anni, dalla mia adolescenza in poi – non ho potuto trattenermi dal pensare che il fascino di questo libro avesse a che fare con la loro capacità di tenere assieme un punto di vista molto tagliato e personale con una speciale disponibilità a rimettersi in dubbio a ogni passo e a provare a immaginare le ragioni dell’altro, piegandole a poco a poco alla propria prospettiva, secondo un meccanismo che ricorda la teoria gramsciana dell’egemonia, con il suo costante inglobare le verità dell’avversario e sfruttare a proprio vantaggio le sue vittorie. Anche questa sarebbe una prova della fedeltà, consapevole o inconsapevole, alle proprie letture di gioventù. Di certo possiamo dire che in Calvino l’attenzione al rovescio della medaglia deriva in maniera eguale dal suo particolare gusto di narratore per tutte le forme di straniamento letterario (via Bertolt Brecht e Victor Sklovskij) e dalla sua passione politica per una Storia osservata dalla prospettiva degli oppressi.

Per una curiosa coincidenza, le Lezioni americane condividono questa attenzione per il lato invisibile con l’altro grande libro di teoria della letteratura scritto da un narratore italiano nel Novecento, vale a dire L’umorismo di Luigi Pirandello. Come è noto, secondo Pirandello ciò che rende l’umorismo così prezioso e che lo differenzia dalla pura e semplice comicità è la sua tendenza a soffermarsi sull’ombra dei personaggi piuttosto che sulla loro figura; attraverso questo procedimento (che implica una profonda solidarietà dell’autore con colui che viene preso in giro) chi legge è portato ad andare oltre la propria stessa risata e a scoprire il dolore che si annida dietro quei tratti che in un primo momento hanno innescato la sua ilarità. Le Lezioni americane funzionano un poco allo stesso modo, perché i valori di Calvino solo tali solo a patto di guardare alla loro ombra sino al momento in cui siamo pronti a riconoscere la piena legittimità dei valori opposti.

Tutto questo mi sembra particolarmente importante per noi – trenta anni dopo il trionfo planetario del neo-liberalismo. Una vulgata storiografica pretende che le Lezioni americane siano quasi un atto di abiura rispetto alla produzione precedente di Calvino o comunque l’esito estremo di un processo di allontanamento dalla letteratura impegnata cominciato alla fine degli anni Sessanta. Questo è però un modo di travisare completamente il senso del testamento intellettuale di Calvino. Nessuna euforia postmodernista attraversa infatti queste pagine (l’euforia: uno dei sentimenti dominanti del tempo). Per un marxista italiano rimasto sempre fedele ai propri ideali di gioventù come Calvino, la modernizzazione degli anni Ottanta stava portando l’Italia e in generale il mondo occidentale nella direzione sbagliata. Una tremenda sconfitta si era consumata o si stava consumando: ed è per questo che le Lezioni americanehanno come humus non l’euforia postmoderna ma il senso di disfatta che, per gli uomini della sua generazione e delle sue idee politiche, in quel giro di anni si faceva sentire con particolare forza in Italia dopo le straordinarie attese del decennio precedente. Si scrive un testo rivolto al nuovo millennio perché si pensa di non avere abbastanza interlocutori presso i propri contemporanei e si cerca di affidare un messaggio nella bottiglia agli uomini che verranno – esattamente come un secolo prima avevano fatto Giacomo Leopardi e Stendhal cercando la comprensione postuma dei lettori del futuro.

La posizione delle Lezioni americane è tuttavia preziosa oggi perché in Calvino la lucida consapevolezza della sconfitta si accompagna sempre con la speranza in una futura riscossa. Anche questo va considerato probabilmente un lascito della lunga familiarità con le categorie di quella dialettica da cui pure, in tutta la seconda parte della sua vita, Calvino non aveva fatto che cercare di affrancarsi. Che i segnali siano tutti così cattivi, non significa insomma necessariamente che non esistano spazi per l’azione.

Abbiamo molto da imparare dallo spirito combattivo di Calvino. E qui, per quanto scontata, una citazione appare obbligatoria. Per dirla con le parole di Marco Polo, alla fine de Le città invisibili: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

«Farlo durare, e dagli spazio». Ancora oggi non ci sono molte altre ricette verosimili. E questo naturalmente non vale solo per la letteratura.

GABRIELE PEDULLA’

da rifondazione.it

fonte: Le parole e le cose

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