Le radici profonde del Nazareno

B9JEhurIUAAoN3oMolti commentatori odierni, purtroppo anche da sinistra, scambiano un partita di poker ottimamente giocata, con un mutamento strategico. Scambiano cioè la spuma di una superficie mossa da venti incostanti, con il fluire costante delle correnti profonde, quelle che modificano davvero temperature ed equilibri fisico-chimici delle masse d’acqua. Con Berlusconi «avremo modo di ricucire, c’è tanto lavoro da fare» (Boschi, Repubblica 30 gennaio). La ministra ha ragione: è sul «lavoro» fatto e su quello da fare, sulle culture che lo ispirano, sulle strutture di ogni tipo che lo sorreggono, che vanno misurate le ragioni del «lungo Nazareno», non sulle necessità contingenti della tattica. «Rispetto Berlusconi… il fatto che sia stato condannato e Verdini rinviato a giudizio attiene alle loro vicende personali» (Repubblica, 5 novembre 2014).

Questa affermazione di Matteo Renzi, ad esempio, è un indicatore di grande importanza per comprendere la logica di movimento di una delle correnti profonde. È quasi certo che Renzi consideri del tutto logica e naturale la concezione del rapporto pubblico/privato che vi è sottesa. Reti affaristico-criminali, con modalità e peso assai diversi nei loro rapporti con la politica, sono state una costante della storia intera dell’Italia repubblicana. Reti in qualche modo controllate, costrette ad una condizione sommersa, quando la classe politica si confrontava, e si scontrava, su processi di trasformazione della società in cui le politiche economiche non fossero disgiunte dall’ampliamento della sfera dei diritti. Sul campo della dignità della politica, dunque.

L’unica dimensione che, in particolare nella «tradizione» italiana», ha potuto fronteggiare con possibilità di successi importanti l’altra logica: quella della politica dei «comitati di affari». L’abbandono di questo percorso, anzi la sua inversione, la “miseria della politica” insomma, sono i lineamenti lunghi che aprono alla possibilità di innumerevoli «patti del Nazareno».Ecco perché considerare Renzi il responsabile della cosiddetta “mutazione genetica” del Pd è un errore di analisi. Un errore che può portare anche chi vede con chiarezza l’orrore politico e civile in cui siamo immersi a valutazioni sbagliate sulla profondità delle sue radici.

Ed a pensare, quindi, che si possa tornare ad un centrosinistra “buono” (quello di Bersani?) dopo essersi sbarazzati del centrosinistra “cattivo”, quello di Renzi. Tale posizione, che continua ad aleggiare anche in questa fase di costruzione di una casa comune della sinistra (se ne sono sentiti echi piuttosto forti e chiari in interventi di autorevoli personaggi nella giornata conclusiva di Human Factor e poi nei tanti sospiri di sollievo per la “svolta a sinistra” di Renzi) è priva non solo di analisi strutturale, ma anche di semplice verifica empirica. Ad esempio qualche settimana fa il giuslavorista Piergiovanni Alleva, si è interrogato proprio sul «lavoro fatto», un lavoro che indica le linee su cui dovrà muoversi quello da fare. Alleva, a proposito, ha pubblicato, un breve articolo sul Jobs Act (il manifesto 27/12/2014) esemplare per chiarezza e attenzione alla concretezza delle cose, alla loro verifica empirica appunto. Fatti che nello stesso tempo danno solida rappresentazione della sceneggiata sui ruoli del centrosinistra «cattivo» e del centrosinistra «buono». Il centrosinistra cattivo sceglie da che parte stare, «quella dei forti mettendosi sotto i piedi i deboli» (Scalfari, la Repubblica 28 dicembre 2014).

Quello buono (i 27 senatori del Pd che si erano dichiarati contrari alla “riforma”) permette che passi la legge che «si mette sotto i piedi i deboli» pur avendo i numeri per impedirlo. Non è solo il «colmo dell’ipocrisia», come scrive Alleva, ma l’indice sicuro che all’interno di quel sistema di esercizio del potere chiamato centrosinistra, all’interno di un gioco di forze in cui tutti, buoni e cattivi, in qualche modo si riconoscono nella risultante, non esiste alcuna possibilità reale di invertire la direzione. Questo perché Renzi, il renzismo, non rappresentano nessuna improvvisa calata degli Hiksos sul Pd, ne sono bensì la sua «rivelazione», per usare le metafore opposte di Benedetto Croce e Piero Gobetti. Renzi mette in una parentesi privata il Berlusconi delinquente. Ma Giorgio Napolitano aveva già fatto lo stesso al momento di chiedere un «sereno giudizio storico» per Craxi.

L’asse portante dell’argomentazione concerneva la considerazione a partedelle vicende giudiziarie di Craxi. La loro separazione dall’opera complessiva del «leader politico, e uomo di governo» con la giustificazione della modernizzazione del sistema politico italiano. Una modernizzazione che, allora come oggi, aveva come stella polare il controllo degli “eccessi di democrazia”, ieri tramite la “grande riforma”, oggi con le “turboriforme”. Il nuovo imprenditore politico non fa che portare alla logica conclusione, adatta ai tempi ed alla misura dei personaggi, una concezione della politica che trae origine dal duro scontro Berlinguer-Napolitano, concezione poi largamente accettata dai gruppi dirigenti delle varie “Cose” e del Pd.

La documentazione a proposito è imponente e i comportamenti conseguenti. Una realtà che solo chi si rifiuta di leggere parole e cose può dissimulare. Tutto ciò in stretta, necessaria, relazione con il rigetto di qualsiasi riferimento all’ampio e complesso panorama delle teorie critiche e con l’adesione entusiasta alla teoria economica mainstream. Alla sua variante più ideologica, quella dell’“economia volgare”. Nessuna esagerazione nell’uso di questa espressione: si pensi solo che il primo responsabile economico del Pd ha argomentato il rapporto economia società sul modello di schemi di laisser faire ispirati, forse non a caso, al pricipio per cui in economia, e non solo, i vizi privati siano spontanei portatori di pubbliche virtù. D’altra parte la cesura in questione si era già posta come la condizione essenziale per il progetto dell’Ulivo mondiale nella seconda metà degli anni Novanta. La irrilevanza della politica che ne consegue è il luogo dove la “ditta” si sostituisce al «partito».

Le metafore non sono mai innocenti. Ciò spiega anche la non resistibile ascesa di Renzi in un contesto in cui il contrasto non verteva certo sulle centralità, bensì sulle marginalità. Il luogo privilegiato dei giochi di posizionamento. Ciò spiega anche la remissività della minoranza Pd nella quale, a parte qualche eccezione, prevalgono le ragioni della ditta. I tempi della “casa comune” possono forse dipendere dall’attesa di questi Godot? Offriamo pure il vitello grasso a quelli di loro che decideranno di venire ad abitarla, ma la costruzione non può aspettarli.

PAOLO FAVILLI

da il manifesto

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