Non passeranno!

10359214_10204441752514703_5178182031884966543_nIl centro sociale autogestito Intifada di Roma ha ospitato Venerdì sera una delle più importanti tappe della Carovana Antifascista organizzata dalla Banda Bassotti. Si tratta di un tour pensato dalla Banda al fine di raccogliere fondi economici e solidarietà per il popolo del Donbass. Le tappe successive saranno Mosca, poi Rostov sul Don, località in cui sono stati accolti migliaia di profughi del Donbass, ed infine, nonostante la guerra in corso, l’ultima tappa sarà nella Novorossija, la nuova nazione che sta sorgendo nell’Est dell’Ucraina, formata dalle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, grazie alla ribellione delle milizie popolari contro il governo golpista e neonazista di Kiev.

La serata romana è stata eccezionale, oltre un migliaio le persone presenti, e insieme alla Banda Bassotti hanno suonato due gruppi spagnoli: i Boikot e due componenti degli Ska-P.

Durante il concerto c’è stato un collegamento video in diretta con le milizie del Donbass, che hanno ringraziato il pubblico ed i gruppi per il supporto ed hanno promesso che i fascisti di Kiev “NO PASARAN”.

Proprio questa è la parola d’ordine della Carovana Antifascista, quella degli antifascisti spagnoli durante la guerra civile. Quella che ha spinto migliaia di ragazzi da tutto il mondo a partire per la Spagna a combattere il fascismo, formando le Brigate Internazionali.
Sentire il pubblico urlare all’unisono “NO PASARAN”, con il pugno chiuso al cielo, insieme ai combattenti del Donbass in collegamento video, fa comprendere che non poteva esistere una parola d’ordine più azzeccata, capace di unire gli antifascisti nella solidarietà al Donbass, nonostante le bugie ed il silenzio dei media.

Grazie all’uso di Skype si è aperta una finestra tra il Donbass e Roma e certamente un’emozione profonda si è impadronita delle centinaia di persone raccolte nel cortile dell’Intifada; ma si pensi a quale valore possa aver avuto per gli antifascisti ucraini vedere una piazza intera, a migliaia di chilometri di distanza, incoraggiarli, applaudirli, cantare per loro. Hanno voluto salutare la piazza e la Banda con quello che hanno definito il loro motto: “meglio morire in piedi, che vivere in ginocchio!”.
Quello che sta facendo la Banda Bassotti è l’essenza dell’Internazionalismo, è ciò che devono fare i partiti comunisti e della sinistra italiana ed europea, ovvero rompere il silenzio dei media e portare la solidarietà concreta a chi sta combattendo il fascismo e l’imperialismo in Europa. Il loro progetto permette di far conoscere alla sinistra quelle repubbliche popolari nate dalla lotta agli oligarchi ed al fascismo, e, in un certo senso di “egemonizzare” a sinistra la lotta del Donbass, in un periodo in cui, grazie soprattutto ai media di regime, si è diffusa una certa “russofobia” anche tra le nostre fila.
Il lavoro portato avanti dalla Banda Bassotti è prezioso; perché pur con tutte le contraddizioni presenti tra i miliziani della Novorossiya, noi dobbiamo sapere da che parte stare, ovvero da quella dei Comunisti russi ed ucraini, da quella dei minatori del Donbass, da quella del Popolo del Donbass, che mesi fa con un referendum ha già deciso che con i golpisti ucraini e con la NATO non ci vuole stare.

E allora, ringraziando calorosamente la Banda Bassotti, possiamo dire che, oggi come ieri, saremo dalla parte di chi combatte il fascismo, perché, citando una vecchia canzone italiana:

“Il nemico attuale è sempre ancora eguale a quel che combattemmo nei nostri monti e in Spagna”

NO PASARAN!

EMANUELE e GIULIA
Circolo “Ernesto Che Guevara” – Roma

 

3 commenti su “Non passeranno!”

  1. In questo momento molto difficile, drammatico per mio padre (classe 1925) vorrei confortarlo anche recuperando questo articolo già pubblicato (su cartaceo) su “A, rivista anarchica” (anno 33 n. 289 aprile 2003). Piccolo o grande, ha dato il suo contributo pagando di persona “il biglietto di ritorno per la democrazia”. Onore a lui e a tutti coloro che in un modo o nell’altro fecero Resistenza alla dittatura.
    ciao. GS

    resistenza

    Mio padre partigiano
    (Gianni Sartori)

    Una storia partigiana semplice, quella di Leone Sartori “Marcello”: raccontata dal figlio.

    Premessa: da molto tempo coltivo l’ambizione di raccogliere materiale sufficiente per scrivere un libro sulla Resistenza nel Vicentino e in particolare sui Colli Berici sperando di contribuire alla conoscenza di episodi, personaggi, situazioni finora trascurati, soprattutto per l’area collinare dove operò la “Brigata Silva”. Esiste, infatti, una discreta documentazione sulla Resistenza operante sui monti vicentini (dal Pasubio all’Altopiano di Asiago, dalla Val d’Astico al Grappa), grazie anche alla diffusione dei libri di Meneghello (v. “Piccoli maestri”) ma molto poco sui Berici, le colline a sud-est di Vicenza.
    Intanto il tempo passa e il materiale si accumula invano, rischiando anche di disperdersi ad ogni trasloco.
    Ho deciso quindi di scrivere qualche articolo, senza alcuna pretesa di “fare la Storia” delegando ad altri l’eventuale realizzazione di un’opera sistematica.
    Dato che finora la mia fonte principale è costituita da familiari (genitori, zii…) alla fine il racconto peccherà inevitabilmente di “personalismo”. Chiedo venia in anticipo agli addetti ai lavori ma ritengo che comunque anche queste testimonianze, per quanto parziali, contribuiscano a ridare un volto ad alcuni di quei combattenti per la Libertà che, con le armi o semplicemente rifiutandosi di collaborare, contribuirono a sconfiggere la peste bruna e nera.

    I bombardamenti: un’occasione per salvarsi la vita
    Fin da piccolo avevo spesso sentito parlare dei devastanti bombardamenti subiti da Vicenza dato che mio padre, Leone Sartori detto “Marcello”, classe 1925, aveva vissuto di persona i tristissimi momenti. Quei fatti avevano di certo contribuito alla sua scelta di non arruolarsi nelle fila dell’esercito di Graziani e Mussolini, di rendersi latitante e alla fine di entrare in contatto con i partigiani della brigata “Silva” (dal nome di un partigiano caduto) che operava sui Colli Berici.
    «Durante uno dei tanti allarmi aerei mi trovavo al distretto militare di Vicenza – precisa “Marcello” non senza una piccola reticenza dovuta al suo carattere schietto e schivo – e sicuramente il distretto poteva essere uno dei tanti obiettivi. Per questo i comandanti avevano fatto uscire al primo suono della sirena d’allarme un gruppo di 60-70 soldati che si diresse verso la zona della “stradella dei nani”. Io uscii con il secondo gruppo ma non riuscimmo a percorrere molta strada. Quando cominciarono a cadere le bombe ero proprio davanti allo stabilimento del Lanificio Rossi (a Porta Monte N.d.A.). Mi buttai a terra calcandomi in testa il berretto.
    Approfittando di una breve pausa cercai di raggiungere il ponte sospeso sul Bacchiglione che era stato danneggiato e penzolava sostenuto da una sola delle due corde sul fiume. Lo attraversai aiutandomi a forza di braccia sperando nella sorte. Sapevo che seguendo il Bacchiglione sarei potuto arrivare a casa mia potendo usufruire della rigogliosa vegetazione. Mi fermai solo dopo qualche chilometro, ormai in aperta campagna, e guardai verso Vicenza.
    Il bombardamento era cessato, si distinguevano alte colonne di fumo sopra la città. Ripresi a correre lungo la riva sino alla corte dei Dalmaso. Il tempo di far sapere a mia madre che ero vivo e poi subito a campi. Cominciò così la mia latitanza di renitente. In zona ero il primo ma presto diventammo numerosi. Di giorno stavo nascosto nei campi o tra gli alberi della riva del Bacchiglione. Di notte, col buio, raggiungevo la “tesa” (fienile) dei Dalmaso per dormire. Quale fosse il mio abituale rifugio notturno, oltre ai miei, lo sapeva solo Bepi, il più anziano dei fratelli Dalmaso. Non lo sapeva nemmeno Toni Sgarabotto, il mio futuro suocero.
    Toni arrivava ogni mattina prestissimo per “guernare” la stalla e le mucche. Alla sera dalla tesa recuperavo la scala che, al mattino, rimettevo al suo posto per scendere. A volte capitava che Toni arrivasse troppo presto e, mentre andava in giro brontolando in cerca della scala, la calavo giù e filavo via. Anni dopo mi ha detto di aver avuto qualche sospetto ma di non averne mai fatto parola con nessuno. Quando poteva mia madre mi portava da mangiare, badando bene a non dare nell’occhio. Qualche volta nascondeva il cibo in fondo alla secchia e veniva a lavare al fiume.
    Altre volte arrivava con la “traversa” (grembiule N.d.A.) piena di erba raccolta per i conigli e, sotto, qualcosa da mangiare.
    Non si può dire che in famiglia fossimo consapevolmente antifascisti ma di sicuro la notizia della morte di mio fratello Danilo in Grecia mi aveva fatto capire molte cose.
    Comunque c’era stato qualche precedente. Mio padre, Augusto, era “obbligato”, una specie di bracciante. Durante una lotta contro i proprietari, parecchi anni prima della guerra, lui e i suoi compagni avevano nottetempo aperto le stalle e fatto scappare le mucche per la campagna (e in questo, se permettete, oltre che un momento della lotta di classe vedo un preannuncio della mia militanza animalista N.d.A.). Per rappresaglia, il giorno dopo, ricevette la visita di tre squadristi. Lo avevano già immobilizzato e stavano per fargli bere l’olio di ricino quando mia mamma (mia nonna, Evoli Marta, detta “Pina” N.d.A.) arrivò con la forca e ne infilzò un paio. Se non ricordo male uno alla gamba e l’altro ad una chiappa. Se ne andarono di corsa, nonostante le ferite, senza farsi più rivedere».
    Purtroppo le cose andarono diversamente per un mio zio (marito di Marcella Sgarabotto, sorella maggiore di mia madre) “Tilio” (Attilio) Fasolato, operaio allo stabilimento Rossi di Debba (prima canapificio poi cotonificio, da non confondere con l’altro cotonificio Rossi di Porta Monte, in città), principale industria della zona. Qui andarono a lavorare anche mia zia e poi mia madre, Rosa Sgarabotto, all’età di tredici-quattordici anni. “Tilio”, socialista e sindacalista, venne aggredito dai fascisti che evidentemente non apprezzavano i suoi tentativi di organizzare i compagni di lavoro; subì l’onta di dover ingurgitare a forza l’olio di ricino e rischiò di morirne. Un altro operaio dello stabilimento che subì angherie e persecuzioni (anche dopo la fine della guerra) fu il mitico Battistella, comunista e agitatore, ma anche grande amico personale dell’altrettanto mitico Don Camillo, parroco di Debba, laureato in ingegneria e assai energico, anche se viveva con un solo polmone. Durante la Resistenza divenne una sorta di “cappellano militare” dei partigiani della Brigata “Silva”. Scoperto dai nazifascisti era già stato messo al muro per essere fucilato; venne salvato in extremis dall’intervento di un ufficiale tedesco. Don Camillo ebbe poi modo di ricambiare alla fine della guerra.
    Quanto alla violenza fascista nei confronti dei lavoratori, operai o contadini, essa non esprimeva altro che quella intrinseca ai rapporti sociali del tempo. C’è un episodio nell’infanzia di mio padre che, a mio avviso, potrebbe trovare posto in “Novecento” o anche tra le pagine di “Ragazzo negro”. A Longara c’è ancora una villa padronale, all’epoca (inizio degli anni trenta) provvista anche di campo da tennis, dove i rampolli del signor ricco si dilettavano con i loro amici e ospiti.
    Capitò a Leone (che abitava allora poco lontano, al Tormeno), mentre rientrava con una fascina di legna raccolta nel bosco, di vedere una palla fuoriuscire e rotolare tra le stoppie. La raccolse prontamente, come un bene prezioso data l’abituale indigenza in cui versava la sua famiglia, dandosi alla fuga. Venne raggiunto da grida e minacce ma non si fermò. A questo punto si ritrovò inseguito da alcuni cani di grossa taglia che i signori avevano liberato, non tollerando evidentemente l’atto di scortesia, se non proprio di ribellione, del bambino.

    Un mondo ai margini
    Ma torniamo al tempo di guerra. La “terra di mezzo”, compresa tra la strada che da Vicenza, passando per Casale, porta a San Piero Intrigogna e le anse del Bacchiglione, era quindi diventata il rifugio temporaneo di Leone Sartori e altri renitenti. Solo un’esigua striscia di terra in prossimità dei Colli Berici, che all’epoca però offriva diversi ripari naturali, sia di giorno che di notte. In particolare le rive coperte di alberi, le “piantà” e le “siese”. Senza dimenticare il rilievo del “monteseo”, detto “dei Dalmaso”, ricoperto dalla vegetazione di un rocolo e in cui si apriva anche una piccola cavità naturale, il classico “buso della Stria”. Una sorta di “terra di nessuno”, costituita da interstizi marginali e sconosciuti che furono anche i luoghi prediletti delle mie scorribande infantili negli anni cinquanta. Luoghi che ora nella mia memoria ritrovo avvolti in una atmosfera un po’ magica, forse per il fatto di essere legati all’acqua, alle grotte, alla vegetazione… Percorsi ignoti ai “foresti” (in senso lato, intendendo sia i tedeschi che la gente di città) che intersecavano quelli normali (“ufficiali”) dando vita quasi ad una realtà parallela, offrendo vie di fuga e rifugi. Tutto ciò però non poteva accadere se non ci fosse stata la robusta e tacita complicità degli abitanti della zona. Si sapeva tutto e nessuno sarebbe sfuggito alla cattura se le notizie fossero arrivate alle orecchie sbagliate.
    «Qualche volta – continua Leone – mi arrischiai anche a dormire a casa. Avevo tagliato una delle inferriate che chiudevano la finestrella in alto (in “granaro”, dove negli anni cinquanta ricavò la stanzetta in cui trascorsi la mia infanzia N.d.A.), così da potermici infilare. Oltre alla comoda “tesa” dei Dalmaso avevo altri rifugi d’emergenza. Me ne scavai qualcuno lungo la sponda dei fossi, in particolare alle pendici del “monteseo”. Scavavo via la terra della riva e mettevo dentro un gabbiotto per i conigli, di quelli lunghi. Poi ricoprivo con zolle ed erba. Ma ci dormivo il meno possibile, temendo di venir preso come un topo in gabbia.
    Dopo qualche tempo dalla mia fuga dal distretto furono in parecchi a trovarsi nella mia stessa situazione. Chi dormiva nei campi, chi in qualche rifugio, chi nelle “tese”. A quel punto la gente della zona di Casale, Casaletto, San Piero Intrigogna sapeva bene che eravamo fuggiti dalle caserme. Che eravamo alla macchia. “Sbandati”, come si diceva allora. Nessuno però fece la spia.
    Una volta partecipai addirittura alla “sesola”; per dieci-quindici giorni raccolsi il frumento insieme a tutta la gente della mia contrada, che mi conosceva benissimo ma che mi proteggeva con il suo silenzio. Ricordo che a quella “sesola” partecipò anche il “Moro”, Luigi Sgarabotto. Era appena ritornato dal fronte, ferito ad una gamba. Della guerra, diceva, ne aveva avuto abbastanza. Anche mio fratello Vittorio lavorava con noi, aveva un figlio a cui avevamo insegnato di chiamarmi con un altro nome. Un giorno dovetti restare nascosto in mezzo al grano (che all’epoca cresceva più alto N.d.A.) perché i brigatisti neri facevano il bagno lì vicino, nel Bacchiglione. Prima che decidessero di tornare a riva (dalla parte opposta, verso Longara, dove avevano la caserma) trascorsero delle lunghe ore».

    Tra rastrellamenti e furti campestri…
    Successivamente Leone Sartori si rifugiò per qualche giorno dalle parti di Montegalda, in una fattoria. Poi però dovette ritornare al “monteseo” e il fratello Giovanni, operaio allo stabilimento di Debba, andò a prenderlo in bici… Il ritorno, di notte naturalmente, si svolse così: «ci davamo il cambio; uno pedalava e l’altro stava seduto sul palo. Prima di ogni curva, a scanso di brutte sorprese, io scendevo e saltavo al di là del fosso, proseguendo a campi. Poi, visto che tutto era tranquillo, risalivo sulla bici fino alla curva successiva».
    «In seguito tornai per un altro breve periodo dalle parti di Montegalda, ospite nella “tesa” di Neno “Fraca” dove per la prima volta entrai in contatto con alcuni partigiani. Lo conoscevo perché prima della guerra mio fratello aveva lavorato sui suoi campi. Il fratello di Neno venne poi assassinato dai fascisti, proprio da quelli della “Nera” di Longara. Venne fucilato vicino alla ferrovia, accusato di essere un partigiano. In realtà si era solo rifiutato di consegnare ad un plotone di tedeschi e di fascisti il suo mezzo di trasporto, non ricordo se la bici o il cavallo. Qualche giorno dopo i partigiani uccisero nello stesso punto un tedesco e lo seppellirono a testa in giù, in modo che sporgessero solo i piedi. In conseguenza di questo episodio ci fu un rastrellamento. Quel giorno mi trovavo sui campi al di qua del fiume, verso Ghizzolle. La giornata era limpidissima, si riusciva a scorgere il pendio del Monte Lungo di Montegalda, dove era in corso una vera caccia all’uomo. Alla fine due partigiani rimasero uccisi e sei o sette catturati. Venimmo a sapere poi che l’operazione di rastrellamento era andata a colpo sicuro perché qualcuno del posto aveva informato i fascisti sui luoghi dove si nascondevano partigiani e renitenti (“ribelli” e “sbandati”)». Ma non c’erano solo i periodici rastrellamenti a turbare il sonno di Leone e compagni.
    «Una notte, mentre dormivo nella stalla di Neno (invece che nella solita “tesa”, forse perché pioveva) in mezzo alla paglia, vennero i ladri. Rubarono alcune galline e cercarono di portarsi appresso due maiali. Accortisi della mia presenza fuggirono precipitosamente. Per la porta rimasta aperta, anche i due maiali colsero l’occasione per scappare. Ormai però qualcuno sapeva che dal “Fraca” si nascondeva un renitente e così dovetti andarmene.
    Nel frattempo era stata concessa un’amnistia e, evidentemente malconsigliato, mi ripresentai al distretto. Venni subito trasferito alla caserma dei bersaglieri in via san Silvestro ma, capito che con ogni probabilità la nostra destinazione sarebbe stata la Germania, alla prima occasione tolsi il disturbo (sulle deportazioni di soldati italiani dal vicentino, dopo l’8 settembre, esistono le prove inoppugnabili di alcune fotografie: ammassati a centinaia nei cortili della caserma Cella, a Schio, in attesa di essere fatti salire su decine e decine di pullman con destinazione Germania N.d.A.). Approfittai del solito allarme per i bombardamenti e stavolta mi diressi verso la Gogna. Nonostante l’oscurità riconobbi tra le persone in fuga il “Moro” (Luigi Sgarabotto, fratello di Rosa che poi sarebbe diventata moglie di Leone e quindi mia madre N.d.A.)».
    In seguito anche Luigi si sarebbe rifugiato nei dintorni del “monteseo”, costruendosi un rifugio nel “buso della stria” dopo aver ampliato la cavità con l’esplosivo.
    «A questo punto, – prosegue Leone – nella totale confusione provocata dal bombardamento, ritornai indietro, verso Monteberico. Poco dopo il “10 Giugno”, dove inizia la salita verso il santuario, entrai nella grande galleria (ancora visibile ai nostri giorni, anche se murata N.d.A.) che si apre alla base del monte. Non saprei dire quanto sia lunga e nemmeno dove esca di preciso, probabilmente nella Valletta del Silenzio, da dove è abbastanza agevole raggiungere Longara e Debba. Ricordo di averla percorsa completamente al buio, tenendomi aderente al muro mentre intorno sentivo i passi di decine di altre persone in fuga».
    Leone rientrò poi nella sua piccola “patria”, in mezzo ai campi o sulle rive del fiume in attesa di unirsi ai partigiani della brigata “Silva”, allora già attivi sui Colli Berici.

    Precedenti di militarizzazione nel sottosuolo berico
    Come è noto, attualmente alcune cavità dei Colli Berici sono un vero e proprio ripostiglio per l’esercito americano, sia a Longare che al Tormeno. Ricorda mio padre che durante la guerra c’erano stati precedenti significativi nell’opera di militarizzazione delle cavità collinari nostrane.
    I Tedeschi avevano pensato di utilizzare come deposito sotterraneo per gli impianti industriali le antiche cave di Costozza, in modo da proteggerli dai bombardamenti degli Americani. Questi ultimi evidentemente appresero bene la lezione e in seguito l’applicarono alla grande con la base denominata “Pluto”.
    Racconta Leone: «A Costozza, dentro alle grotte, avevano trasportato gli impianti di numerose industrie. Ricordo che c’erano le Reggiane, la CARI, la Ducati, l’Alfa Romeo, anche la Laverda, mi pare… Tutti i macchinari erano stati messi al sicuro. I tedeschi non erano molti, qualche decina…più che altro per controllare i lasciapassare. Dentro poi c’erano delle guardie alle dipendenze delle varie ditte, della CARI in particolare. Tra i civili c’era molta gente in contatto con la Resistenza. La consegna era di salvare i macchinari ma di non produrre niente, niente di utilizzabile almeno. Questa era stata una precisa consegna del CLN durante l’ultimo inverno di guerra: scendere a valle ed eventualmente guadagnarsi anche da vivere lavorando per la TODT (valeva per chi non era troppo compromesso, ovviamente) salvaguardando gli impianti, i macchinari in vista della ricostruzione postbellica (e magari dell’occupazione delle fabbriche N.d.A.), sabotando invece la produzione».
    Il racconto di mio padre continua: «A Costozza nessuno produceva niente perché nessuno voleva produrre per i tedeschi. Se per esempio si doveva fare un pezzo di ricambio si faceva in modo che fosse inutilizzabile…»
    «Dentro a Costozza c’erano anche diversi partigiani della “Silva” (ovviamente in incognito). I Tedeschi si erano sistemati in basso, prima del “Volto” (il caratteristico torrione sotto cui passa la strada per Lumignano N.d.A.), in una palazzina. Il padrone delle grotte, mi dicevano, era un conte; dentro era immenso. C’era una strada sotterranea che usciva in Col de Ruga, dove adesso ci sono gli Americani (la comunicazione tra l’area delle grotte rivolta a Costozza e quella verso Col de Ruga-Longare, dove si trova la base “Pluto”, venne poi murata dagli Americani N.d.A.). Ricordo degli spazi immensi, dei pilastroni enormi. A mezzogiorno si usciva per la mensa che si trovava sulla sinistra, in direzione di Lumignano. Eravamo tantissimi. Per la strada, all’uscita, si faceva fatica a procedere. Con noi mangiavano anche i dirigenti, gli ingegneri che alloggiavano presso i “Buoni Fanciulli” dell’Opera Don Calabria».
    In merito ai ricordi sulle incursioni alleate, aggiunge: «A Costozza gli aerei hanno attaccato 3-4 volte sparando dentro alla bocca principale con le mitragliere (con il “75”, si diceva). Per avere qualche possibilità di infilare i proiettili nell’imbocco, scendevano in picchiata; mitragliavano e, quasi subito, dovevano immediatamente impennarsi e risalire per non schiantarsi contro il monte. Ricordo invece che una volta sono passati, molto in alto, così tanti apparecchi da far spavento…Hanno continuato a passare dalla mattina alla sera. Spuntavano sopra Lumignano e si dirigevano verso Vicenza. Sopra la città poi si diramavano; una parte andava a bombardare Verona, altri si dirigevano altrove. Qui in genere non bombardavano forse perché i Colli Berici erano una zona controllata dai partigiani».
    Alla fine il piccolo presidio di Tedeschi, prima di abbandonare la posizione trattò con i partigiani la consegna di un salvacondotto per potersene andare senza essere attaccati. In cambio non avrebbero fatto saltare i macchinari. Così avvenne anche se, da notizie non confermate raccolte a Pianezze (da una fonte solitamente ben informata ma che vuole restare assolutamente anonima), questi tedeschi sarebbero stati poi sterminati da un altro gruppo di partigiani a Motta, sulla strada per la Valdastico.

    Stragi nazifasciste nel Vicentino
    Ma nel vicentino si conserva soprattutto la memoria di svariati eccidi di civili operati dai nazifascisti; particolarmente efferato quello di Monte Crocetta (appena fuori da Vicenza) dove vennero uccisi anche ragazzini di tredici o quattordici anni. A Pedescala, in Val d’Astico, poi vi fu una vera e propria strage (più di sessanta persone), compresi vecchi e bambini. A Vicenza, nonostante le recenti derive destrorse (una dozzina di consiglieri comunali di AN; niente male per una città in cui operarono anche i GAP e medaglia d’oro della Resistenza), si ricordano ancora ogni anno i “Dieci Martiri”, prelevati dal carcere di Padova e assassinati dai nazifascisti in prossimità della ferrovia, vicino al ponte sul Bacchiglione. Meno noto l’eccidio di Campedello, forse una rappresaglia per il tedesco ucciso a Longara, prima dell’assalto-saccheggio al deposito di viveri. Anche in questo caso le vittime civili ammontarono a una decina. Ricorda mia madre Rosa che un altro deposito-viveri dei tedeschi si trovava a Debba e che vi era conservata anche una grande quantità di zucchero, all’epoca raro e prezioso. Prima di scappare un tedesco (proprio quello che aveva salvato Don Camillo dalla fucilazione!) stava per incendiarlo, ma venne convinto a desistere dal parroco. In cambio venne tenuto nascosto in canonica e poi, quando le acque si erano ormai calmate, poté ripartirsene indisturbato per la Germania. Sempre mia madre, ricorda di averlo visto in un paio di occasioni a Debba, dove tornò spesso a salutare e ringraziare il battagliero parroco. Quanto ai viveri contenuti nel deposito vennero equamente distribuiti tra i “poveri” (la stragrande maggioranza) di Debba e dintorni.
    Ma il “lieto fine” con riconciliazione finale fu senz’altro un’eccezione. Un po’ dovunque, sia sui Colli Berici che in città, per non parlare dell’Alto Vicentino (v. Malga Zonta), si trovano lapidi che ricordano la morte per mano dei nazisti e dei loro complici, i collaborazionisti in camicia nera, di civili e partigiani. Alcuni casi furono particolarmente drammatici, come a Pederiva (nella stretta Val Liona che si insinua tra i Colli, sovrastata da Zovencedo e Grancona) dove un gruppo di giovani renitenti che si erano radunati nella chiesetta del paese per raggiungere le formazioni partigiane sull’Altopiano di Asiago, caddero in un’imboscata e, prima di essere uccisi, vennero barbaramente torturati. Ancora oggi c’è chi ricorda con orrore i resti smembrati dei giovani e i muri ricoperti di sangue. Tanta fu la ferocia che da allora la chiesetta è rimasta sconsacrata. Altre volte si tratta di episodi “minori” come quello ricordato da una lapide ingrigita di Campedello. Qui due fratelli vennero fucilati per non aver prontamente consegnato la loro bicicletta a un reparto di Tedeschi in fuga, forse gli stessi che provenivano da Costozza.
    Sempre a Pianezze (dalla stessa fonte che mi ha fornito la sua versione sui Tedeschi scappati ma intercettati poi dai partigiani a Motta) ho anche avuto la dritta per identificare dove si trovava il mitico “campo da bocce dei partigiani della Silva”. In effetti, in mezzo a un degradato bosco di castagni, è ancora ben identificabile un lungo spiazzo che appare sicuramente spianato dalle mani dell’uomo. Qui alcuni partigiani si erano costruiti quel campo per le bocce dove ammazzare il tempo in attesa dei lanci degli alleati e di cui avevo sentito parlare anche da mio padre. Non aveva però mai avuto l’occasione di farne uso e si era convinto che si trattasse soltanto di una leggenda.

    Gianni Sartori

  2. Un contributo al laicismo in chiave antifascista, ciao
    GS

    “GUERRE SANTE” (da bin Laden a Anders Behring Breivik) e possibili sbocchi reazionari della crisi europea.
    (Gianni Sartori – 2012)
    La sua personale “guerra santa” Osama bin Laden l’aveva dichiarata ancora nel 1998, prima degli attacchi alle ambasciate statunitensi in Kenya e in Tanzania e molto prima di quello del 2001 (11 settembre). Dalla lettura della fatwa si poteva comprendere che i futuri atti di violenza terroristica venivano considerati come “risposte ad una dichiarazione di guerra contro Dio, il Suo messaggero e i musulmani”. Si riferiva, ovviamente, alle operazioni militari degli Usa in Medio Oriente. Quella di bin Laden non è stata l’unica dichiarazione di guerra proclamata da attivisti che dicono di ispirarsi alla religione. In genere si pensa a figure del mondo islamico come lo sceicco Ahmed Yassin e Abdul Aziz Rantisi, rispettivamente fondatore e leader politico di Hamas, entrambi uccisi dai servizi segreti israeliani. Ma esempi di “terroristi in nome di Dio” (come li definisce la traduzione italiana del libro di Mark Juergensmeyer) non mancano tra i sikh del Punjab (attentato all’aereo dell’Air India nel 1985), gli induisti (la Rashtriya Swayamsevak Sangh negli anni venti in India, in parte le Tigri tamil nello Sri Lanka) o perfino i buddisti. Shoko Asahara, leader della setta Aum Shinrikyo responsabile dell’attentato con gas nervino alla metropolitana di Tokio nel 1996, rappresenta sicuramente un caso limite, ma suggerisce che nemmeno la dottrina dell’ahimsa rende del tutto immuni (una conferma che nessuna religione è intrinsecamente “buona” è venuta dal genocidio compiuto pochi anni fa dai buddisti cingalesi ai danni dei tamil). Anche molti esponenti di quella che viene definita “destra ebraica” si consideravano attivisti religiosi. Personaggi come Baruch Goldestein (autore del sanguinario attacco alla Tomba dei Patriarchi nel 1994 a Hebron), Yoel Lerner e il rabbino Meir Kahane, ammazzato nel 1990. Yigal Amir, responsabile dell’uccisione del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin nel 1995, sostenne di essere stato influenzato dalle opinioni espresse da alcuni rabbini. Il suo gesto veniva “legittimato dal decreto del persecutore” che obbliga moralmente un ebreo a fermare chi rappresenta un “pericolo mortale” per il suo popolo. La colpa di Rabin era di aver negoziato con l’Olp di Arafat.
    E i cristiani? Probabilmente si sentivano profondamente tali alcuni seguaci di Ian Paisley che militavano nei gruppi paramilitari filoinglesi in Irlanda del Nord (Ulster freedom fighters, Ulster protestant volunteers, Ulster protestant action group, Ulster volunteer force…), responsabili di numerosi omicidi settari nei confronti della popolazione cattolica. Diverso, va detto, l’atteggiamento della maggior parte dei militanti repubblicani. Questi ultimi, pur altrettanto violenti, erano in genere molto più “laici”, non settari (in genere colpivano soltanto protestanti legati alle milizie lealiste o alla polizia filobritannica).
    Alcuni significativi esempi di terrorismo cristiano li troviamo negli Stati Uniti, tra organizzazioni e milizie di destra come Christian Identity, Christian Army of God, Michigan Militia (a cui era legato l’autore della strage del 1995 di Oklahoma City, Timoty McVeigh), Posse Comitatus, Aryan Nations.
    Militanti fanatici formatisi tra le interpretazioni dei testi biblici opera di Hal Lindsey (The Late Great Planet Earth e The Promise of Bible Prophecy) e la lettura di testi razzisti, dall’apocrifo I protocolli dei savi di Sion al romanzo fantapolitico di William Pierce The Turner Diaries, oltre a numerosi bollettini propagandistici antigovernativi come Spotlight o Patriot Report, infarciti di teorie della cospirazione e di antisemitismo. O guardando e riguardando The Big Lie (il video prodotto da Linda Thompson sul mortale assalto contro i Branch Davidians a Waco) durante le pause dell’addestramento paramilitare in campi comunitari come The Covenant, the Sworrd and the Arm of the Lord, in Arkansas. Anche il norvegese reo-confesso della strage di Utoya, Anders Behring Breivik, ossessionato dall’immigrazione e dal multiculturalismo, venne definito dai media “cristiano fondamentalista”. Con alle spalle una militanza nel FramstegsPartiet (Partito del Progresso), si trovava molto probabilmente sulla stessa lunghezza d’onda dei gruppi suprematisti statunitensi e non è da escludere che proprio gli esempi di oltre oceano lo abbiano suggestionato. La tecnica con cui aveva preparato l’auto-bomba è simile a quella utilizzata da McVeigh contro un edificio federale a Oklahoma City (quasi duecento vittime) mentre l’attacco al campeggio dei giovani laburisti evocava i ricorrenti massacri di studenti nelle università degli Usa, in particolare quello di Columbine. Se la “teoria dell’imbuto” (utilizzata da Joel Dyer, autore di “Harvest of Rage”, per spiegare l’incremento di azioni terroristiche compiute dalle milizie statunitensi) non vale solo per gli Usa, ma anche per la vecchia Europa sarebbe il caso di preoccuparsi. Da molti anni stiamo assistendo al diffondersi di una estrema destra razzista (spesso antisemita) che non esita nel richiamarsi apertamente al fascismo e al nazismo.
    In Norvegia il FramstegsPartiet (FrP), tanto xenofobo quanto neoliberista, con il 22,9% dei voti è diventato la seconda forza politica del Paese. Altrettanto a destra, il partito conservatore Hoyre. In Svezia la Sverigedemokraterna (Democrazia svedese, erede di un movimento filonazista) di Jimmi Aakesson, con il 5,7% dei voti aveva superato lo sbarramento entrando in Parlamento con 20 seggi. Varie formazioni neonaziste sono presenti a Stoccolma, Goteborg e Uppsala. Tra queste la Vitt Ariskit Motstand (“Resistenza Bianca Ariana”) che usa la runa “dente di lupo”, il “nodo di rune” utilizzato negli anni settanta da Terza Posizione e più recentemente da alcuni gruppi ucraini e polacchi. Durante la seconda Guerra mondiale designava la Das Reich, divisione SS responsabile di eccidi come quello del 1944 a Oradour-sur-Glane (oltre 650 morti accertati, in maggioranza donne e bambini.
    In Finlandia i voti a favore del partito Perussuomalaiset (Veri Finnici) arrivano quasi al 20% (con una quarantina di seggi). Non a caso Anders Behring Breivik aveva inviato il testo del suo memoriale ad un parlamentare di Perussuomalaiset. Ancora nel 2007 il Dansk Folkparti (Partito del popolo danese) con il 13,8% dei voti aveva conquistato 25 seggi nel Folketing (parlamento danese) diventando la terza forza politica del Paese, indispensabile per l’appoggio esterno al governo conservatore. Analogamente in Olanda una coalizione di centrodestra ha governato con l’appoggio esterno del Partij voor de Vrijheid. Il “Partito per la libertà”, guidato da Gert Wilders, nel 2010 aveva ottenuto 24 seggi con il 15,5% dei voti. In Austria il Fpo, guidato da Heinz-Christian Strache, era arrivato al 27% nel 2010 (municipali di Vienna). In Svizzera il Partito del popolo, di destra, è arrivato al 28,9%. In Francia, già nelle amministrative del 2010 il Fronte Nazionale di Marine Le Pen aveva guadagnato il 15% al primo turno per poi fermarsi al 12% al secondo. Dopo i buoni risultati già ottenuti nelle presidenziali francesi nel 2012, la figlia del fondatore del Fronte Nazionale appariva destinata a qualificarsi ulteriormente. Sempre in Francia, alla destra del FN proliferano i gruppi cosiddetti “identitari” che recuperano in chiave strumentale tematiche spesso “trascurate” (eufemismo) come l’autodeterminazione dei popoli (gruppi identitari sono sorti sia in Bretagna che in Occitania, sicuramente più difficile con i baschi di Iparralde…), l’ecologia e la giustizia sociale. In Italia, le principali formazioni di estrema destra tricolori rimangono Casapound (i cui militanti in genere votavano per il Pdl) e Forza Nuova (citata nel memoriale di Anders Behring Breivik). Stessa musica nell’est dell’Europa. Aumenta sia il numero dei sostenitori di Jobbik in Ungheria (16,7%) che del partito della Grande Romania (8,66%) e di Atika in Bulgaria. Alimentate dalla crisi economica, le proposte politiche delle destre europee in difesa delle identità nazionali (ma a scapito delle minoranze, ca va sans dire) e di contrasto all’immigrazione (strumentalizzando le paure diffuse tra gli strati popolari, i più esposti alle contraddizioni della globalizzazione) trovano un terreno fertile. Una situazione preoccupante che ricorda fin troppo un film già visto, la Germania degli anni venti e trenta.
    Tutta colpa delle religioni? In parte, almeno. Sicuramente contribuiscono ad alimentare le derive irrazionali e totalitarie. Sia con la sacralizzazione della morte (è un fatto che molti fascisti sono sostanzialmente dei necrofili) che con il culto delle gerarchie (una caratteristica comune di quasi tutte le religioni, in particolare di quelle monoteiste). Non sarà un antidoto universale (esiste anche un totalitarismo di matrice laica), ma sicuramente un poco di sano ateismo ogni tanto non guasterebbe.
    Gianni Sartori (2012)

  3. un contributo sulla Resistenza in Alpago

    (Gianni Sartori)

    Dalla chiesa di Montanès (provincia di Belluno), dedicata a San Martino, si domina il Lago di Santa Croce. Lo sguardo si spinge dal Cansiglio al Col Visentin e alle dolomitiche pareti della Schiara.
    In lontananza si distinguono il Grappa e l’Altopiano di Asiago dove “Piccoli maestri” partigiani scrissero altre pagine significative.
    Tra il ’43 e il ’45 molte furono le vicende di questa conca verde circondata dalle cime suggestive di Col Nudo, Teverone, Crep Nudo, Antander, Messer…
    Su alcuni episodi della Resistenza in Alpago ero stato informato dal compianto Luigi De Min di Lamosano, comandante di un battaglione della Brigata Fratelli Bandiera, nome di battaglia “Squalo” per il servizio militare svolto in Marina, nei sommergibili.
    Altre notizie le avevo poi avute da Nino De Marchi (il comandante “Rolando”), autore del libro “Memorie 1943-1945”.
    Per saperne di più avevo poi incontrato Carlo Barattin, classe 1925, di Montanès.
    “Nel 1943 –mi spiegava- anche noi dell’Alpago siamo stati annessi alla “Grande Germania” del Reich, come l’intera provincia di Belluno insieme a quelle di Bolzano, di Trento e al Friuli Venezia Giulia. Era il territorio dell’Alpenvorland, governato direttamente dai tedeschi”.
    Proprio riferendosi a questo evento Nino de Marchi affermava che “la nostra lotta fu, senza dubbio, guerra di liberazione ed anche di indipendenza”.
    Racconta Carlo Barattin: “Personalmente ero già stato alla visita di leva italiana, ma nel novembre ’43 venni richiamato dai tedeschi. A Montanès eravamo in 8 del ’25 e in un primo momento non ci presentammo. Poi, minacciati dal Podestà (sosteneva che in tutto l’Alpago solo noi non ci eravamo presentati), andammo a Puos per la visita. Ripensandoci è stato un errore. Da quel momento avevano nomi e cognomi precisi di ogni renitente e se ti prendevano eri spacciato”.
    La cartolina arrivò dopo quindici giorni e “noi abbiamo preso la corriera verso Ponte nelle Alpi. D’accordo con l’autista siamo scesi in una zona disabitata e per due mesi siamo rimasti nascosti nei boschi”.
    A questo punto il gruppo di renitenti decise di integrarsi nella Resistenza, alcuni in Cansiglio, altri in Alpago. Qui operava la Brigata Fratelli Bandiera comandata da Nino De Marchi, ex ufficiale di Artiglieria Alpina. In seguito De Marchi doveva diventare il comandante della Brigata Nino Bixio. Nella piana del Cansiglio si era insediato il Comando di Divisione Nino Nanetti (dedicata ad un esponente delle Brigate Internazionali caduto, con il grado di generale, sul fronte basco al comando di una divisione dell’Esercito popolare) che comprendeva le brigate del Gruppo Vittorio Veneto: Cairoli, Fratelli Bandiera, Bixio (con i battaglioni Manara, Nievo e Manin) oltre alle brigate Mazzini, Tollot e Piave.
    “Ad un certo punto –continua Carlo Barattin- ci siano spostati a Pian Cajada, sopra Longarone e Fortogna, dietro il monte Serva. Poi siamo andati alle casere Stabali, sotto al Monte Dolada e al Col Mat, verso Venal di Montanes. Con noi c’era anche il comando del CLN. Ricordo che con Giorgio Betiol e Attilio Tissi dovevamo fare la guardia ad un gruppo di tedeschi. Grazie al parroco di Padola, don Weiss, organizzammo uno scambio di prigionieri alle “paludi”, vicino al canale sotto Tignes. Noi abbiamo consegnato otto tedeschi e contemporaneamente, in base all’accordo, a Bolzano venivano liberati alcuni prigionieri dal campo di concentramento”.
    Naturalmente nel gruppo dei giovani partigiani “c’era un po’ di paura. Noi eravamo in quattro (più il parroco) con otto prigionieri. Di fronte, in mezzo alla strada, c’era un maresciallo tedesco con quattro soldati”. Carlo ricorda che in quel periodo vennero attaccati il presidio di Puos, quello di Bastia e di Santa Croce. Una volta un attacco è fallito perché “dovevamo attraversare un ghiaione e il rumore dei sassi che cadevano ha messo in allarme i nemici che hanno cominciato a sparare”.

    Un evento particolare nella storia dell’Alpago è rappresentato dall’arrivo del maggiore Harold William Tilman. Del mitico comandante della missione alleata Beriwind, conosciuta come Simia, mi avevano parlato sia Luigi De Min che Nino De Marchi.
    Nato nel 1898, Tilman,noto alpinista-esploratore con esperienze himalaiane, viene ricordato per la prima ascensione del Nanda Devi nel 1936, all’epoca la più alta vetta mai raggiunta. Al suo attivo scalate sui monti Kenya, Ruwenzori. Kilimanjaro e in Patagonia, oltre a tre tentativi sull’Everest.
    In Alpago e Cansiglio Tilman manteneva i collegamenti con le truppe sbarcate nel sud d’Italia e garantiva la possibilità di ricevere rifornimenti paracadutati dagli aerei.
    Carlo fece parte del gruppo incaricato di incontrare Tilman (arrivato a piedi dall’Altopiano di Asiago dove era stato paracadutato pochi giorni prima) e di portarlo in Alpago.
    “Siamo andati a prenderlo sul Piave, nella zona tra Castion e Sagrogna, nel maggio del 1944, di notte. Durante il ritorno, eravamo appena arrivati a Puos e ci eravamo fermati per riposare, è iniziato l’attacco di un altro gruppo di partigiani al presidio. Naturalmente siamo ripartiti immediatamente”.
    Tilman rimase a lungo con il gruppo di Carlo esplorando le vette circostanti. In particolare “cercava un passaggio da utilizzare per sfuggire ai rastrellamenti raggiungendo Cimolais e la valle del torrente Cellina (in Friuli) attraverso i monti”. Spesso queste esplorazioni si concludevano in piena notte. Del maggiore ricorda anche che “in pieno inverno scendeva dal Col Nudo (quota 2471) e per lavarsi si tuffava nell’acqua gelida”.
    Tilman “riceveva e trasmetteva in codice, senza che neppure il marconista, un toscano, potesse comprendere. L’interprete era un tenente di artiglieria di Trento”.
    Ai partigiani era affidato il compito di recuperare i piloti inglesi e americani colpiti dai tedeschi. Racconta che “ne avevamo sempre una dozzina nascosti. Una volta in Cansiglio cadde una fortezza volante; tre piloti morirono, ma altri tre sopravvissero. Tra questi c’era un capitano di nome Tom”. A Montanès si ricordano anche di un certo “Tech”. Rimasero tutti nascosti per mesi nelle casere sopra il paese.
    “Un altro pilota –prosegue Carlo- lo abbiamo recuperato in Fadalto, vicino al Lago di Santa Croce. La vita non era facile. C’era poco da mangiare e non era semplice procurarsi del cibo”.
    Inizialmente i paracadute venivano bruciati “poi li usammo per fare delle camicie”.
    Ogni tanto “i piloti sparivano. Tilman trovava il modo di mandarli verso Venezia, verso Trieste, verso il mare…dove venivano recuperati”. E’ significativo che dopo la guerra alcune famiglie di Montanès abbiano avuto un riconoscimento benemerito dalla RAF.
    Bisognava inoltre recuperare il materiale paracadutato dagli aerei. I “lanci” avvenivano soprattutto in Cansiglio e Pian Cavallo, dove era facile nascondere le armi e i viveri nelle numerose cavità naturali.
    Luigi De Min mi aveva raccontato di quando con Tilman aveva risalito il Venal di Montanès fino al Passo di Valbona, tra il Col Nudo e la Cima della Pala del Castello per poi inoltrarsi lungo il sentiero impervio delle Landres Negres, già nel Friuli. Al ritorno il maggiore si levò il giubbotto e con quello scese per il ripido pendio ricoperto di neve “come se fosse sopra ad uno slittino”.
    Ma anche i tedeschi erano alla ricerca del passaggio.“Una volta –racconta il nostro interlocutore-prelevarono alcune persone a Montanès tentando di raggiungere il Passo di Valbona con i muli”. Sembra che siano riusciti ad “arrivare fino a Claut, forse a Barcis. Uno dei sequestrati è riuscito a scappare: gli altri due poi sono stati rilasciati…era solo un giro di esplorazione”.
    Ben più grave quella che accadde durante un rastrellamento quando “i tedeschi arrivarono da Farra, mentre il nostro gruppo si trovava a Col Indes (sopra Tambre). Il primo morto lo hanno fatto a Sant’Anna dove allora c’era soltanto la malga”. Era l’epoca dei grandi rastrellamenti che colpirono anche sulle montagne vicentine: dalla valle di Posina (in agosto, Malga Zonta), all’Altopiano (ne parla Meneghello in “Piccoli maestri”), al Grappa. Poi, in settembre, toccò al Cansiglio e all’Alpago. Durante il rastrellamento del settembre 1944 i tedeschi “hanno ucciso anche alcuni malgari in Val Salatis, la valle che risale verso il Monte Cavallo. A Spert i partigiani catturati e uccisi sono stati appesi ai ganci, esposti come in una macelleria”.
    Carlo ricorda con commozione anche un’altra vittima dei nazifascismi, il “Comandante Zero”, originario da Soccher, del battaglione Piave. Era stato fatto prigioniero e avrebbe dovuto portare i soldati in Venal di Montanès, alle casere Stabali dove erano nascosti i partigiani e il comando del CLN. Finse di sbagliar strada portandoli in Venal di Funès, sull’altro versante del Teverone. Naturalmente “quando si resero conto di essere stati ingannati i tedeschi lo ammazzarono. Il corpo del comandante Zero venne ritrovato nei boschi da Tilman, vicino alla Crosetta. Noi pensavamo che dopo la cattura fosse stato deportato. Con il suo sacrificio –sottolinea – ha salvato una cinquantina di persone, tutte quelle che in quel momento si trovavano a Stabali”.
    E prosegue ricordando che “nel gennaio del 1945 da Tambre vennero deportate una cinquantina di persone, in maggioranza renitenti. Alcuni finirono a Mathausen e solo tre o quattro ritornarono a casa. Uno in particolare ritornò distrutto psicologicamente. Nel campo di concentramento era stato costretto a bruciare i cadaveri dei suoi compagni”.
    Il 20 febbraio alla casera di Montanès venne ucciso Vittorio Barattin (nome di battaglia Faè) un partigiano amico e coetaneo di Carlo. L’episodio è stato raccontato anche da Nino De Marchi. In quel momento il comandante partigiano si trovava proprio a Montanes dove era stato mandato per riorganizzare la sua vecchia brigata, la “Fratelli Bandiera”.
    “Quel giorno a Montanès i tedeschi avevano rinchiuso nelle stalle una trentina di civili che sicuramente sarebbero stati uccisi per rappresaglia se ci fosse stato uno scontro a fuoco, se Nino avesse tentato di sganciarsi combattendo”. Invece il “comandante Rolando”, rischiando di essere catturato, riuscì a restare nascosto durante il rastrellamento e le perquisizioni. Alla fine i tedeschi se ne andarono senza distruggere il paese.
    Lorenzo Barattin, anche lui del ’25, ricorda che “la sera prima avevo dormito nella casera di Montanès con mio fratello e con Vittorio , ma per ben tre volte avevo fatto un sogno angoscioso. Entrava nella casera un cacciatore e si metteva a dormire vicino a noi. Sempre lo stesso sogno per tre volte. Ne parlai con mio fratello e decidemmo di traslocare”. Invece Vittorio aveva incontrato in paese alcuni partigiani e rimase con loro nella casera. “Morì –racconta-per una pallottola che entrò dalla spalla e forò il polmone”.
    Finita la guerra, nonostante avessero partecipato alla Resistenza (“pagando il prezzo del biglietto di ritorno alla democrazia”) Carlo, Lorenzo e altri partigiani dell’Alpago furono obbligati a fare anche il militare. Poi se ne andarono a lavorare in Svizzera, in Francia o in Belgio.
    Quanto a Tilman, l’ultima immagine che Carlo conserva è quella del maggiore mentre sale su una jeep americana a “la Secca”, sulla strada che collega Vittorio Veneto a Ponte nelle Alpi. La sua vita avventurosa si concluse nel 1977 quando, navigando verso le isole Falkland, scomparve misteriosamente nell’Oceano Atlantico.
    Gianni Sartori

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