Una soluzione democratica per tutto il Medio Oriente

490-254Negli ultimi 33 anni della lotta di liberazione kurda, il partito dei lavoratori e delle lavoratrici del Kurdistan (PKK) e il suo Presidente Abdullah Öcalan hanno dato risposte alle dinamiche sociali emergenti e si sono mossi sempre nella direzione di promuovere una società liberata. Il PKK ha sempre inteso la questione kurda come liberazione sociale, di tutti, senza nessuna discriminazione. Il testo di Öcalan Özgürlük Sosyolojis ( Sociologia della libertà)(1) è una guida per liberazione del Rojava e di tutto il Medio Oriente.

Fin nei più piccoli dettagli vengono indicati i passi che conducono alla liberazione. Attraversando la regione di Rojava, abbiamo incontrato molte persone che hanno avuto uno stretto rapporto con Abdullah Öcalan o con altre persone che hanno avuto a che fare con la storia del PKK.

Questi rapporti hanno prodotto dei cambiamenti nella società fondamentalmente feudale della regione. Particolarmente le donne hanno posto l’accento su questo fatto. Molte di loro da più di vent’anni conoscono le questioni e l’approccio dell’ideologia di liberazione della donna e cercano di tradurli in fatti concreti. Grazie agli stretti contatti con il movimento di liberazione kurdo, molti si sono uniti alla lotta del PKK e hanno combattuto nel Kurdistan del Nord. E’ sbagliato vedere il PKK unicamente come fenomeno del Kurdistan del Nord. Fanno parte di questo movimento migliaia di attivisti di Rojava.

Dopo l’arresto di Abdullah Öcalan nel 1999 e l’acutizzarsi della repressione del regime di Assad, vi è stata una fase di riorganizzazione. Nel 2004, dopo il massacro della popolazione curda di Qamişlo e la conseguente rivolta, è iniziata una fase di riorganizzazione sino alla formazione di gruppi armati di autodifesa. Poco prima era nato il partito di sinistra dell’Unità democratica (PYD), che ben presto è diventato una consistente forza politica della regione. I nuovi paradigmi del movimento di liberazione kurdo e particolarmente le idee di Abdullah Öcalan, ispirate tra l’altro dal teorico libertario Murray Bookchin, di confederalismo democratico e di autonomia democratica, sono iniziate a diventare un modello di orientamento.

Abdullah Öcalan, criticando sia la storia degli Stati sia del socialismo reale e dei movimenti di liberazione nazionali, tra cui anche il PKK, ha progettato un modello di società democratica, ecologica e non sessista in contrapposizione alle concezioni rivoluzionarie che si basano sul sovvertimento e sulla presa del potere. Öcalan ha parlato di una società etica e politica che si autoamministra democraticamente dalla base, e che si differenzia dalla consumistica società capitalistica standardizzata.
Alla luce di questo modello si sono formati in Siria i primi Consigli e Comitati ed è iniziata una radicale organizzazione su base democratica partendo dall’intera popolazione kurda. Poi, a partire dal 19 giugno del 2012, si sono liberate dal regime le città di Kobanê, Afrîn, Dêrik e tante altre località, e si è vista la forza di questa organizzazione.

Le basi militari sono state circondate e alle truppe governative è stata data la possibilità di ritirarsi. Solo a Derik vi sono stati degli scontri con alcune vittime. L’autoamministrazione ha impedito attacchi, distruzioni, atti vandalici e di vendetta come ci hanno riferito persone tra la gente di Derik.

La legittima autodifesa e la terza strada
Se osserviamo questa fase e la politica del movimento kurdo in Rojava possiamo vedere anche la trasformazione di un altro paradigma del confederalismo democratico: l’autodifesa e il primato di una soluzione delle questioni senza l’uso della violenza. Il movimento kurdo e in particolare il PYD hanno organizzato già prima della rivoluzione siriana la resistenza contro il regime di Assad. Si trattava di un mutamento democratico per impedire che ci fosse una militarizzazione del conflitto. Con lo scoppio della guerra, l´islamizzazione del conflitto e le le rivolte in Siria in un certo modo eterodirette, il movimento kurdo in Rojava ha deciso di intraprendere una terza via: né con il regime né con l’opposizione. Autodifesa si, guerra no, e sino ad oggi questa è la politica di questo movimento. Nei quartieri abitati dai sostenitori del regime, pertanto, sono tollerate ancora le unità governative e lo stesso vale per l’aeroporto. L’obiettivo è di raggiungere una soluzione democratica per tutta la Siria.

In tutta la regione di Rojava le comuni sono al centro dell’organizzazione della società

“La creazione di una piattaforma nella quale si possono esprimere – per quanto riguarda i processi decisionali – tutte le comunità religiose, le formazioni politiche sociali di ogni tipo e gli intellettuali, può essere considerata una democrazia partecipativa.”

Il confederalismo democratico mira all’autonomia della società: questo non significa che la prospettiva è quella di uno Stato che amministra la società, bensì una società politicizzata che prende le decisioni: ciò si contrappone alla modernità capitalistica attraverso una modernità democratica. Per rendere possibile questo, le comuni sono diventate il punto centrale del sistema sociale; la Comune è l’autoamministrazione della strada. Le decisioni prese in tutti i consigli del Rojava vedono la partecipazione di almeno il 40 per cento di donne nella discussione: si discute delle necessità dell’amministrazione, dell’approvvigionamento alimentare, dell´energia elettrica ma anche di problemi sociali come la violenza patriarcale, le liti tra le famiglie e in famiglia e tanto altro, e si cerca di trovare una soluzione.

Sono insediate nelle Comuni commissioni che si occupano di tutti i problemi sociali. Si tratta dell’organizzazione della difesa, della giustizia, delle infrastrutture, della gioventù fino all’economia e alla nascita di cooperative, gestite dalle Comuni. Possono essere panifici, sartorie o progetti nel campo dell’agricoltura. Commissioni all’ecologia si occupano della pulizia delle città e delle problematiche ambientali. Particolare attenzione viene posta al rafforzamento del ruolo della donna nella società, in modo da favorire una indipendenza economica delle donne.

In tutte le questioni la casa del popolo (Mala Gel) è a disposizione, sia come istituzione di appoggio sia come forma di giurisdizione di primo grado. L’idea di fondo è trovare accordi e compensazioni e indagare le cause della violazione della legge e proteggendo la persona colpita, trovare soluzioni. Ciò vale per i delitti in generale. Per quanto riguarda la violenza patriarcale che colpisce le donne, se ne occupa la casa della donna (Mala Jinan), nella quale si trova il Consiglio delle donne che rappresenta una struttura parallela del Consiglio misto (maschi e donne) della Comune.

Come noi stessi abbiamo potuto osservare, fanno parte delle Comuni persone dalle più svariate identità, principalmente arabi ed assiri. Il Mala Janin si occupa anche di problemi sociali ed è responsabile nella traduzione nei fatti degli obiettivi del movimento di liberazione della donna. Laddove è possibile si privilegia nei Consigli il principio del consenso generale. Le comuni mandano i loro rappresentanti nei consigli circoscrizionali e nei Consigli cittadini. Questa struttura si estende poi al Consiglio generale di tutta la regione di Rojava.


Autonomia democratica e Stato nazionale
E’ possibile la coesistenza dello stato nazionale con il Confederalismo democratico, nella misura in cui lo Stato non si occupa nelle questioni dell’autoamministrazione. 
Questi interventi devono sollecitare la società civile all´autodifesa..«2
Il confederalismo democratico è, dunque, una forma di auto-amminstrazione che si contrappone al modello statalista. Si tratta di un approccio di una permanente rivoluzione sociale che si rispecchi nella struttura sociale. Il superamento dello Stato nazionale è un obiettivo a lungo termine. Lo Stato sarà superato quando concretamente tutte le strutture saranno regolate in auto-organizzazione e auto-amministrazione. I confini nazionali e/o territoriali a quel punto non avranno più nessuna importanza.

L’auto-amministrazione del confederalismo democratico della società renderà superfluo lo Stato e lo Stato nazionale. Questo significa che la Comune, il Consiglio, la Comunità sono espressione del modello sociale e la Comune diventa il centro politico. La regione di Rojava ha scelto all’inizio come forma il modello cantonale svizzero con la larga autonomia delle regioni. Il cantone nasce idealmente dalla cooperazione dei Consigli politici autonomi. Laddove lo Stato nazionale si basa sull’omogeneizzazione sociale attraverso un processo di formazione identitaria, e da ciò scaturisce la sua attuazione anche con la coercizione, il confederalismo democratico è fondato sulla diversità e pluralità sociale. Una lunga traccia di sangue ha portato con sè lo Stato nazionale nel corso della storia. Esempi nella regione sono l’arabizzazione della Siria e la turchizzazione della Turchia. In Siria vivono arabi sunniti e sciiti, assiri, cristiani, caldei, kurdi yezidi, armeni, aramaici, ceceni, turcomanni e tanti altri gruppi etnici e religiosi.

Una rappresentanza di tutte queste formazioni sociali si ottiene con il sistema dei Consigli e una adeguata distribuzione. La Comune è la struttura dell’auto-amministrazione che vincola gli uni con gli altri e deve essere il centro dell’auto-amministrazione politica. Per alzare il livello organizzativo della società si organizzano corsi di formazione per i membri delle comuni che hanno come asse fondante l’autodeterminazione democratica, la liberazione della donna, la storia della Siria, la storia del Kurdistan, corsi in lingua kurda e altri aspetti sociali.
Abbiamo potuto constatare nel corso del nostro viaggio che la riuscita dipende da zona a zona. In molti settori vi sono Consigli arabi e in modo particolare gli assiri lavorano a stretto contatto con il movimento per la Società democratica (TEV-DEM). I ruoli più importanti sono ricoperti da 3 o 4 co-presidenti conformemente alle formazioni sociali nella regione.


Consiglio supremo, TEV-DEM e democrazia parlamentare.
Mentre la popolazione kurda già da decenni ha avuto a che fare con i concetti di liberazione della donna e di liberazione sociale, a riguardo vi sono naturalmente diversità nei tempi con altre etnie ed è ancora forte il desiderio di volersi organizzare nei partiti classici e non in Consigli. Questo problema crea una doppia struttura a Rojava. Da una parte va eletto un parlamento con elezioni libere sotto supervisione internazionale. Questo parlamento rappresenta una struttura parallela ai Consigli, che formerà un governo provvisorio, nel quale sono rappresentati tutti i gruppi sociali. Il sistema dei Consigli è, una sorta di parlamento parallelo. La strutturazione e la regolamentazione di questa collaborazione è attualmente oggetto di discussione.

La Comune colma la lacuna tra i Consigli del popolo e la popolazione.
Mamoste Abdulselam del TEV-DEM ci ha spiegato a Heseke il sistema delle Comuni. “Andava colmata la lacuna tra i Consigli e la popolazione. Per questa ragione abbiamo sviluppato il sistema delle Comuni. Ci sono 16 Consigli circoscrizionali. In ogni Consiglio siedono 15-30 persone. Circa 50 condomini formano una Comune”.
Ci sono 15-30 Comuni con 15-30 persone per ogni circoscrizione cittadina. Nel quartiere Mifte a Heseke ci sono 29 Comuni, il quartiere limitrofo ne ha 11. Ogni quartiere si basa su circa 20 comuni per circa 1000 persone. I 16 Consigli circoscrizionali si formano dalle Comuni. 101 persone siedono nel Consiglio cittadino di Heseke. In aggiunta vi sono 5 rappresentanti del PYD e 5 per ogni altro partito, 5 rappresentanti del Comitato delle famiglie dei caduti, 5 di Yekitiya Star, 5 rappresentanti della gioventù rivoluzionaria e 5 dei liberali. I Consigli circoscrizionali si incontrano ogni due mesi. 21 persone sono scelte come coordinatori. L’incontro di direzione avviene una volta al mese e può essere convocato anche in caso di necessità in seduta straordinaria. Almeno il 40% sono donne e almeno il 40% sono uomini. Le decisioni vengono prese con il principio del consenso. Si presta attenzione al fatto che non prenda la parola una sola persona. I co-presidenti sono su base elettiva, su proposta dei membri delle Comuni e poi votati.


L’impegno delle donne nelle Comuni
Sirin Ibrahim Ömer, una signora di 45 anni del quartiere di Hileli a Qamişlo ci ha informato, all’inizio della nostra permanenza a Rojava, dell’impegno svolto dalle donne nella Comune
.

“Siamo 60 donne attive nella Comune, una volta alla settimana facciamo formazione, leggiamo insieme libri e ne discutiamo. Due volte al mese facciamo visite ad altre donne e spieghiamo i compiti della rivoluzione. Molte di loro sono ancora influenzate dalla logica statale e non riescono a vedersi come persone che possono fare ed agire in politica. Hanno molto figli e a casa non mancano le liti. I bambini stanno per strada invece di andare a scuola. Noi ci occupiamo di questo. Abbiamo un comitato che si occupa delle famiglie che non hanno entrate economiche. Mettiamo a disposizione generi alimentari di prima necessità.

Il Comitato per la pace parla con le famiglie. Se si fa uso di violenza in famiglia, una donna può chiedere aiuto al Comitato. A Hileli viene disprezzato chi picchia la moglie, pratica oramai quasi in totale disuso. In alcuni quartieri è ancora diffusa, dove tra l’altro è normale che funzioni il televisore 24 ore su 24 con programmi turchi in lingua araba. E, questo era un grosso problema. Venendo a mancare la luce, si poteva pensare anche a qualcosa altro.

Molte donne sono obbligate a prendere marito da piccole, in modo da scoraggiare gravidanze fuori dalla coppia. Adesso, stanno capendo che l’istruzione fa bene e che possono avere una vita migliore.

Una volta alla settimana andiamo lì, raccogliamo anche piccole somme di danaro, un piccolo aiuto. Distribuiamo il giornale (Ronahi), che esce a scadenza settimanale. E’ un giornale molto economico, che tutti possono leggere. Esce in lingua araba e kurda. Adesso quando siamo insieme non facciamo più pettegolezzi come prima ma si discute degli sviluppi politici e dell’organizzazione delle donne. Conosciamo tutti nel quartiere”.

In molti quartieri ci sono le cosiddette case delle donne. Non sono case di rifugio delle donne che scappano come in Germania, ma luoghi dove le donne si incontrano, si istruiscono, discutono dei loro problemi e spesso sono offerti corsi di computer, di lingua e di cucito.


 Il compito principale delle case delle donne è combattere il sessismo sociale.
“Le donne vengono da noi, se hanno problemi. Non solamente le donne kurde, ma anche le donne arabe”, così ci dice una rappresentante della casa delle donne di Serê Kaniyê.
 Noi stessi siamo testimoni oculari di quanto affermato. Due donne arabe sono venute e chiedere aiuto. Dopo una separazione chiedono un risarcimento. “Grazie al sistema delle Comuni, conosciamo ogni singola famiglia, conosciamo la situazione economica di ogni singola famiglia e sappiamo chi picchia la mogli e i figli. Andiamo lì e parliamo con le parti in causa, sino a trovare una soluzione”. La rappresentante della casa delle donne di Serê Kaniyê fissa un appuntamento con le due donne per trovare una soluzione ai loro problemi.


La Comune – luogo dove si risolvono i problemi
La comune non è solamente un luogo di auto-organizzazione ma anche un luogo dove si affrontano e si risolvono problemi e conflitti sociali. Si tratta di problemi sociali nel quartiere, di dare una mano ai membri più poveri della Comune, della giusta distribuzione di materiale per il riscaldamento, di pane e di generi alimentari, di risolvere questioni di vicinato e dello uso della violenza verso i bambini e le donne. Quando ad esempio siamo stati a Derik in un incontro con i rappresentanti di una Comune, si stava trattando il caso di uan famiglia che aveva legato il proprio figlio. La famiglia deve essere osservata e controllata e se i maltrattamenti continuano, i bambini vengono portati in un luogo protetto.

MICHAEL KNAPP
giornalista, TATORT Kurdistan / Germania – www.uikionlus.com

Note:
1A. Öcalan: Democratic Confederalism, London 2011, S. 26
2 Ibd., S. 32

articolo pubblicato l’1/09/2014

 

2 commenti su “Una soluzione democratica per tutto il Medio Oriente”

  1. “ invio questo contributo (la “postfazione” al mio libro sui Curdi) a commento di quanto letto nell’interessante articolo. Un conferma di quanto possa essere contraddittoria e talvolta anche non priva di ombra una causa giusta come quella dell’autodeterminazione dei popoli. Ciao
    GS

    COSA RESTA DELL’AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI?
    (Gianni Sartori)
    In questi articoli e interviste ho voluto mantenere inalterati testo e cronologia, senza rielaborare con “il senno di poi” quanto avevo scritto, mosso in genere dall’indignazione, sulle vicende del popolo curdo. Alcune ipotesi sono state confermate, altre si sono perse per strada (ma forse solo temporaneamente), altre ancora si sono manifestate in maniera inaspettata. Sia nel dramma dei profughi curdi abbandonati dall’Onu in Iraq (dove rischiavano di venire sterminati) che nella paradossale vicenda del boicottaggio contro la Turban-Italia (ero io l’autore del volantino incriminato, ovviamente), la tensione è quella vissuta in quel preciso momento.
    Come si può dedurre da questa “postfazione”, coltivo qualche perplessità sugli sbocchi assunti da alcune lotte di liberazione in tempi recenti (talvolta strumentalizzate dal sistema industriale-militare – l’imperialismo – o da qualche potenza regionale), ma non per questo rinuncio a schierarmi a fianco degli oppressi e contro l’oppressione. Altri verranno e sapranno comprendere, interpretare con maggiore chiarezza gli avvenimenti, non sempre di facile lettura, degli ultimi decenni. Da parte mia, metto a disposizione questo omaggio alla dignità e fierezza di un popolo coraggioso, mai domato, mai addomesticato, mai rassegnato.
    Per i colonizzatori il “divide et impera” non è una novità. Viene praticato con successo almeno dai tempi di Giulio Cesare. La strumentalizzazione, operata dal regime turco, di altre minoranze contro gli armeni (durante la deportazione e il genocidio del 1915) potrebbe aver fornito un protocollo per l’utilizzo da parte della Francia, e in seguito degli Usa, di alcune minoranze indocinesi contro la resistenza vietnamita. Senza ovviamente dimenticare che a combattere in Indocina, Parigi aveva inviato soprattutto soldati originari dall’Africa. Così come l’Italia fascista aveva fatto ampio uso (oltre che dei gas) di ascari africani contro altri africani: eritrei contro la resistenza libica e truppe libiche nel Corno d’Africa. Negli anni ottanta, Londra inviò i gurka nepalesi alle Malvinas. A Belfast e Derry, nell’Irlanda del Nord, frange di proletariato dei quartieri protestanti, manipolate dai servizi segreti inglesi, si resero responsabili di omicidi settari (non di rado indiscriminati, indipendentemente dalla militanza delle vittime nel movimento repubblicano) contro gli abitanti, cattolici, di Falls Road e Rossville Flats. Da sottolineare che entrambi (nativi irlandesi e discendenti dai coloni immigrati dalla Scozia) erano di origine celtica. Un elemento in più per sottolineare l’artificiosità e la strumentalità della divisione su base religiosa delle due comunità, reciprocamente ostili. Sciiti e sunniti, a fasi alterne, vengono strumentalizzati in Medio oriente e lo stesso avviene con le nazioni senza stato e con le minoranze etniche: curdi, beluci, turcomanni, alimentando – e armando – le loro aspirazioni ad una maggiore autonomia o all’indipendenza.
    Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e Al-Da’wa, notoriamente filoiraniani e responsabili di violazioni dei diritti umani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente Washington starebbe utilizzando in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad Al Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?
    Un caso limite quello dei karen, in perenne fuga tra Birmania e Thailandia, che da qualche tempo verrebbero sostenuti da gruppi neofascisti europei.
    Anche le “guerre tra poveri” che stanno insanguinando il subcontinente indiano danno l’impressione di essere in parte manovrate, ma individuarne la vera matrice non è semplice. Nel 2007 alcuni gravi attentati compiuti in occasione di feste nazionali e anniversari dell’India, vennero inizialmente attribuiti ai gruppi islamici. Successivamente emerse la pista dei separatisti del Nord-est (popolazioni bodo e naga). Lo scontro è stato particolarmente duro nell’Assam (dove gran parte della popolazione è induista). Dal 1989 al 1996 la guerriglia dei bodo (in maggioranza cristiani) aveva causato la morte di circa duemila persone. Nel dicembre 1996 un attentato al Brahamaputra Express, mentre attraversava l’Assam, provocò più di trecento morti. Ancora prima delle rivendicazioni, l’atto terroristico venne attribuito ai bodo che due giorni prima avevano fatto saltare un ponte ferroviario. Alcuni osservatori parlarono esplicitamente di “strategia della tensione” e di manipolazioni dei servizi.
    Molto probabilmente in alto loco qualcuno pensa che è “sempre meglio che si ammazzino tra di loro”, purché il controllo del territorio e delle risorse rimanga saldamente nelle mani di chi detiene il potere. Si tratti di un esercito di occupazione, di una multinazionale o di criminalità organizzata come nei pogrom di Ponticelli. E naturalmente anche l’oppresso, il diseredato di turno ci metterà “del suo”.
    Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale, come di quelli autonomistici o identitari, non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Manuel Castells ha parlato di “indipendenze a geometria variabile” , denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese “a seconda di chi, del come e del quando”. Ricordava che osseti e abkhazi si erano ribellati contro la Georgia nello stesso periodo in cui i ceceni si sollevavano contro la Russia. Inizialmente gli Usa appoggiarono l’insurrezione cecena, ma tollerarono facilmente la repressione da parte della Georgia. Analogamente nel caso del Kosovo (dove è stata poi costruita un’immensa base statunitense) si è invocato il diritto all’autodeterminazione, mentre per il Tibet non si va oltre qualche protesta simbolica. Quanto agli uiguri, sembra quasi che non esistano come popolo.
    “Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione – sostiene il sociologo catalano -sono frutto di un cinismo tattico” e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno “strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente”.
    Gli esempi si sprecano. Pensiamo al trattamento riservato ai curdi in Iraq, praticamente autonomi e quasi alleati degli Usa, mentre quelli in territorio turco continuavano ad essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, storicamente alleato strategico degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. E intanto i curdi dell’Iran (“Partito per una vita libera in Kurdistan”, PJAK, considerato il ramo iraniano del PKK attivo in Turchia), dopo una serie di impiccagioni che l’opinione pubblica mondiale ha ignorato, nel 2010 si sarebbero rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva documentato Le Monde, ma poi le cose sarebbero cambiate).
    Nel caso di Timor Est, la popolazione subì per anni un vero e proprio genocidio nell’indifferenza dell’opinione pubblica. Tra le poche eccezioni Noam Chomski e la “Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli” (Lidlip, fondata da Lelio Basso). Solo di fronte al rischio concreto di una dissoluzione dell’Indonesia intervennero le forze internazionali, ripescando l’ex guerrigliero Gusmao, leader del Frente revolucionària de Timor-Leste independente (Fretilin) per farne il presidente. Pare che inizialmente non ne fosse particolarmente entusiasta, dato che aspirava a ritirarsi e darsi all’agricoltura. Paradossale che tra i militari inviati a tutelare il diritto all’autodeterminazione di Timor Est vi fossero esponenti dei corpi scelti dell’antiterrorismo britannico provenienti direttamente da Belfast.
    Due situazioni molto simili come l’Irlanda del Nord e il Paese basco, negli ultimi anni sembravano aver imboccato strade antitetiche. Soluzione politica, abbandono della lotta armata da parte di Ira, Inla e delle principali milizie lealiste, liberazione dei prigionieri politici e cogestione del governo locale a Belfast e Derry. Repressione, ancora casi di tortura, tregue effimere, illegalizzazione di partiti (Herri batasuna, Batasuna, Bildu, Sortu…), associazioni ( Jarrai, Haika, Segi, Gestoras pro Amnistia, Askatasuna…) e giornali (Egin, Egunkaria) a Bilbo, Donosti e Gasteiz. Solo nel 2012, con la definitiva rinuncia alle armi di ETA e la possibilità per la “sinistra abertzale” di partecipare alle elezioni (con Sortu), si è riaperta la possibilità di una soluzione politica del conflitto. Ma al momento Arnaldo Otegi e altri esponenti indipendentisti rimangono ancora in galera (come se durante le trattative Blair avesse fatto arrestare Gerry Adams) e per i prigionieri politici baschi (in particolare per gli etarras) la situazione rimane molto difficile.
    La mia ipotesi è che negli anni novanta il “grande laboratorio a cielo aperto per la contro-insurrezione” dell’Irlanda del Nord dovesse chiudere in vista della partecipazione britannica alle guerre in Afghanistan-Iraq e del ruolo fondamentale assunto da Londra. Meno convincente la tesi della conversione di Blair al cattolicesimo, anche se non si può mai dire. Quanto agli Usa, Clinton avrebbe agito per conservare il voto dei cittadini statunitensi di origine irlandese che solitamente votano per i Democratici.
    E’ ipotizzabile che in Irlanda del Nord la stessa Cia abbia dato una mano per togliere di mezzo qualche capo delle milizia lealiste (filobritanniche) che non aveva compreso la nuova situazione. Ipotesi formulata anche dal compianto Stefano Chiarini. Al contrario, già negli anni novanta Washington inviava agenti della Cia nel Paese basco per coadiuvare l’apparato repressivo.
    Il problema di “quale autodeterminazione” si pone soprattutto nel caso di stati nati dalla colonizzazione, dato che le loro frontiere sono state stabilite in base a trattati europei con cui si decideva arbitrariamente il destino delle popolazioni. I poteri globali reali (economici, militari, tecnologici) stabiliscono caso per caso, di volta in volta, se appoggiare una lotta di liberazione, legittimarne la repressione o anche inventarne una di sana pianta. Al limite della farsa l’episodio che ha visto un gruppo di aspiranti golpisti (quasi tutti membri di una loggia massonica) arruolare mercenari per sobillare la rivolta secessionista nel Cabinda, regione angolana ricca di petrolio. Da segnalare per l’uso spregiudicato di due ONLUS (Freedom for Cabinda e Freedom for Cabinda Confederation) create appositamente per ricevere donazioni.
    Alcuni casi esemplari, storici, di separatismo a puro uso e consumo di qualche potenza coloniale (come il Katanga di Tshombe nell’ex Congo belga) potrebbero tornare di attualità. Per esempio in Bolivia con Santa Cruz, capoluogo di una regione ricca, abitata prevalentemente da discendenti dei colonizzatori, che ha spinto per l’indipendenza. Chissà? Forse Evo Morales (il presidente boliviano esponente del MAS, Movimento al socialismo) ha rischiato davvero di finire come Lumumba, il presidente progressista del Congo, assassinato nel 1961 dagli sgherri di Tshombe al servizio dell’imperialismo belga.
    Forse non è un caso che nel 2008, dopo anni di impegno a fianco dei popoli oppressi, la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip), riconosciuta dall’Onu e dall’Unesco, abbia definitivamente sospeso le sue attività. Fondata da Lelio Basso, la Lidlip è stata per trent’anni portavoce delle minoranze, delle popolazioni perseguitate, dei movimenti di liberazione dal colonialismo, grazie all’impegno di Verena Graf, segretaria generale e rappresentante permanente della Lidlip all’Onu. Ci mancherà.
    Gianni Sartori

    Qualche notizia sull’autore
    Gianni Sartori è nato a Vicenza nel 1951.
    Giornalista, ha realizzato articoli, interviste, reportage e servizi fotografici in difesa dei diritti dei popoli e su questioni ambientali. In particolare si è occupato di Irlanda del Nord, Paesi Baschi, Kurdistan, Armenia, Corsica, Paisos Catalans, Sudafrica, Sudan… e in genere di minoranze oppresse (Ogoni, U’wa, Moseten, Tamil, Sinti…).
    Ha collaborato con varie testate sia locali (Nuova Vicenza, Corriere vicentino, La Voce dei Berici, Vicenza abc…) che nazionali (Etnie, Umana Avventura, Frigidaire, Liberazione, Narcomafie, A-rivista anarchica, Germinal, Nigrizia, Senza Confini, Azimut…).
    Negli anni ottanta, per la Lega italiana per i diritti e la liberazione dei popoli (Fondazione Lelio Basso) ha curato un ampio dossier sulla questione basca. In rappresentanza della stessa Ong nel 1997 ha seguito come osservatore internazionale il processo di Madrid contro gli esponenti della formazione politica basca Herri Batasuna.
    Tra i libri pubblicati: “Euskal Herria – Indiani d’Europa” (2004); “Irlanda, tutti i colori del verde sotto un cielo di piombo” (2005); “Catalogna, storia di una Nazione senza Stato” (2007).
    Come direttore responsabile ha reso possibile la pubblicazione di varie riviste legate ai movimenti ambientalisti e pacifisti (“La Fucina”, “Unainforma”, il mensile del presidio NoDalMolin…). ”

  2. segnalo in rete:

    ETNIE, Gianni Sartori’s Latest Posts

    I curdi, da Ocalan ai peshmerga
    By Gianni Sartori del 22/09/2014

    Venticinque anni di ricerche, interviste, analisi geopolitiche e testimonianze dirette: un saggio fondamentale per capire le vicende di questo popolo leggendario

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