di Gian Paolo Calchi Novati – il manifesto
2013. Malgrado i progressi politici ed economici non siano un’invenzione, gli stati a sud del Sahara tornano ad essere terra di nessuno (e di tutti). Dal Mali ai conflitti in Centrafrica e Sud Sudan, tra interventi esterni di stampo coloniale e il Sudafrica lasciato solo da Mandela
Cominciato in Mali, il 2013 africano è finito in Centrafrica e Sud Sudan. Ogni crisi ha una storia a sé ma il contagio, i rimandi e le ripetizioni trovano una spiegazione nella geopolitica e la scena è sempre l’Africa. La persistente vulnerabilità – non solo di singole nazioni o fattispecie ma del continente nel suo insieme – autorizza a mettere in dubbio l’ottimismo che aveva fatto parlare di «rinascenza» appena vent’anni fa. In effetti, i progressi della politica e dell’economia non sono un’invenzione e le ultime prove negative non bastano a cancellare tutto. Nel 2014 la crescita dell’Africa a sud del Sahara dovrebbe superare di qualche decimale il 5%. Qualcosa deve essere andato storto, però, se l’Africa è tornata a essere un «oggetto».
Il sistema delle relazioni internazionali, con i suoi caratteri selettivi ed egemonici, è un puro prodotto “occidentale”. Esso è stato realizzato quando le nazioni del concerto erano relativamente omogenee fra di loro mentre l’Africa era un’appendice dell’Europa senza personalità e sovranità. Se ne potrebbe derivare un’irreparabile estraneità dell’Africa. In realtà, l’Africa, sebbene in qualche misura “diversa”, non è fuori del sistema mondiale. Al contrario, essa è sempre più presente come generatore di politica, anche sul piano internazionale e transnazionale, e non più unicamente come recipiente di reti d’interessi che hanno altrove il loro fulcro direzionale, come all’epoca della tratta e poi del colonialismo, ma i rapporti di forza le sono sempre contrari.
Anche gli ultimi fatti dimostrano che un po’ (o molto) per le carenze interne a livello di società e di stato ma anche per l’atteggiamento che la politica del Centro riserva ai travagli della Periferia vale ancora il pregiudizio – molto simile a una profezia che si auto-realizza – secondo cui l’Africa sarebbe una nebulosa di disordine che ha bisogno dell’intervento delle potenze “civilizzate” per rimediare alle sue difficoltà. L’obiettivo è sempre di preservare l’accesso alle risorse economiche, strategiche e di manodopera del Sud del mondo. D’altra parte, appena l’Africa ha preteso che le sue crisi avessero una soluzione africana, le crisi africane, ancora più di quanto non accadesse nel periodo della guerra fredda, hanno cessato di essere solamente africane e hanno sempre più effetti globali. Si può capire così il montare di attenzioni che alla fine si traducono in interferenze, comunque giustificate. Il risultato è un circolo vizioso quasi perfetto fra cause interne che vengono trattate non in se stesse ma per le ripercussioni a distanza o per i fenomeni generali che le inquinano (war on terror e jihadismo, non importa in quale successione logica o cronologica) e operazioni dall’esterno che perpetuano o addirittura riproducono i fenomeni che si pretenderebbe di arginare. L’islam politico ha sempre avuto una sede privilegiata nel Sahel ma ha assunto un atteggiamento anti-occidentale solo negli ultimi anni.
La concentrazione dei conflitti nella terra di nessuno (o di tutti) fra Nord Africa e Africa sudanese è significativa. Si immagina un “confine” – in un certo senso un confine fra due mondi – ma nella realtà è un’area di passaggio. La militarizzazione in atto, quella statica degli Stati Uniti con le infrastrutture per l’intelligence e la videosorveglianza e quella mobile della Francia per le spedizioni di tipo coloniale, l’una e l’altra al servizio del contenimento delle “minacce”, ostacola la libertà di movimento, soprattutto dei nomadi o semi-nomadi, i flussi migratori clandestini, i traffici leciti e illeciti lungo le antiche vie carovaniere, aumentando la belligeranza e creando solidarietà spurie fra tutti coloro che ne subiscono le conseguenze.
È avvenuto anche in Mali con la formazione dello stato di Azawad e sta avvenendo nella Repubblica Centrafricana con disinvolti spostamenti di campo degli stessi alleati dei governi occidentali (il presidente Déby del Ciad cerca di distinguere fra mercenari e soldati). In Mali è ancora aperto il caso di Kidal, la roccaforte dell’irredentismo tuareg, dove le truppe governative non possono entrare: a crederci, sia Hollande che Fabius hanno garantito che la Francia non interferirà.
La Francia ha fatto il punto nel vertice Francia-Africa che si è svolto a Parigi in dicembre. All’inizio della sua presidenza Hollande aveva pensato al precedente di Mitterrand, che pretendeva di sostituire l’Afrique du papa cara al gollismo con una partnership basata sulla diffusione anche nell’Africa francofona delle buone pratiche dello stato di diritto. La forza degli avvenimenti ha spinto il secondo presidente socialista della Quinta Repubblica a celebrare piuttosto le sue “vittorie” militari. Il grande perdente non è il colonnello Sanogo in Mali o Michel Djotodia, che ha rovesciato il presidente del Centrafrica ma che è stato pressoché esautorato. Chi ha perso è l’Africa. E ha perso soprattutto il Sudafrica o più precisamente il suo presidente Jacob Zuma, più che mai allo scoperto dopo la scomparsa di Mandela. È dalla guerra in Libia che Zuma cerca inutilmente di essere “ascoltato”: una tragedia per uno stato che aspira alla leadership del continente, il solo paese africano nel G20 e cooptato nel blocco delle potenze del Sud. È in sofferenza anche l’Unione africana. La forzatura di far eleggere alla presidenza della Commissione africana Nkosazana Dlamini-Zuma non è bastata a rinvigorire l’Ua, ha incattivito ulteriormente la rivale Nigeria e ha sprecato una risorsa (come ex-ministro non come ex-moglie) per una possibile successione.
Alla base dei “buchi neri” del 2013 c’è sempre la questione irrisolta dello stato. L’origine dello stato africano così come venuto alla luce dopo il colonialismo, con un territorio disegnato sulla base di logiche esterne anziché di processualità interne e con istituzioni d’importazione, ha portato alla definizione di “quasi-stato”, che non riguarda solo l’Africa ma che ha in Africa la maggiore diffusione. Lo stato postcoloniale ha adottato un modello che riprende l’esperienza europeo-occidentale ma si è trovato nella necessità di adattarlo a requisiti ambientali e storico-culturali che in parte hanno stravolto il modello degenerando in patologie per certi versi funzionali a garantire una parvenza di governance mettendo in moto un’economia e aggregati informali o decisamente illegali.
I “poteri forti” alla testa del sistema mondiale non si pongono seriamente il problema di quale sia il tasso di “esistibilità” e “sovranibilità” dei nuovi stati. Invece di rafforzare gli stati deboli o garantire i diritti delle minoranze nello spazio precostituito, si punta a protettorati a termine più o meno determinato o alla moltiplicazione di cantoni, ministati o quasi-stati senza radici e con legittimità incerta per dare un rifugio o una speranza ai perdenti di oggi (i possibili vincenti di domani). In Africa è accaduto con l’indipendenza delle province meridionali del Sudan, teatro di un riflusso della vecchia contesa dinka-nuer. La Somalia “pacificata” è un mosaico di spezzoni in parte sotto occupazione straniera. In attesa ci sono il Somaliland, la Cirenaica e forse un Azawad allargato a tutta l’area berbera. Il capo di un’ala del Séléka, il movimento che ha portato al potere a Bangui il poco presentabile Djotodia e che ora sarebbe passato all’opposizione, ha pure minacciato di ritagliarsi uno “stato” nel Nord del Centrafrica.
Il paradosso è che questa formula “grigia” potrebbe aiutare a sbloccare la questione della Cisgiordania e/o di Gaza dando vita a una parvenza di stato palestinese autonomo dentro la sfera strategica di Israele così come il Curdistan iracheno è sotto l’occhio vigile della Turchia e il Somaliland sotto quello altrettanto interessato dell’Etiopia.
un contributo dal passato (ma mi pare che la situazione sostanzialmente non sia cambiata), ciao
GS
I Pigmei e le compagnie
(Gianni Sartori – 2001)
I Pigmei dell’Ituri (Repubblica Democratica del Congo, in prossimità dei confini con l’Uganda e il Ruanda) sono ormai ridotti a poco più di trentamila. Vivono di caccia, pesca e della raccolta dei frutti della foresta, una foresta sempre più assediata dalle compagnie del legno.
“Come conseguenza della deforestazione” denuncia Padre Antonino Mazzuccato, in Congo dal 1967, “anche i pigmei rischiano di scomparire. Siamo ormai di fronte a un vero e proprio genocidio, non solo sul piano culturale e morale, ma anche su quello dell’eliminazione fisica vera e propria in quanto i pigmei rappresentano un intralcio alle attività delle compagnie”.
Il missionario si batte per i diritti delle popolazioni pigmee del bacino del fiume dell’Ituri-Arawini da più di trent’anni, realizzando strutture scolastiche, sanitarie e per fermare la deforestazione operata dalle multinazionali del legno in modo che i pigmei possano sopravvivere come hanno fatto per millenni in equilibrio con l’ambiente naturale.
Da qualche tempo è al suo fianco il fratello gemello Benito, insegnante in pensione, con cui porta avanti un progetto di riconoscimento giuridico per le zone forestali da riservare agli indigeni e per l’autonomia amministrativa (anche se nell’ambito dello Stato congolese) delle zone in cui sono attualmente insediati i pigmei superstiti.
Da un paio d’anni nella regione è in atto una specie di “internazionalizzazione” della guerra civile con l’intervento sistematico delle truppe ugandesi, e sono proprio gli ugandesi i maggiori responsabili delle devastazioni ambientali dato che intendono far fronte agli alti costi della guerra vendendo il legname pregiato, mogano e tek in particolare.
Gli ugandesi, in collaborazione con una multinazionale tailandese specializzata nel commercio del legname, stanno operando dissennate deforestazioni nell’intera area, senza alcun rispetto per le popolazioni e per il prezioso ecosistema.
Ogni anno vengono distrutti circa 150.000 kmq di foresta tropicale per ricavare legname e per la costruzione delle infrastrutture necessarie per le attività delle multinazionali. Oltre ai pigmei rischiano di scomparire definitivamente anche rari esemplari della fauna locale. A rischio di estinzione è soprattutto l’okapi, la cosiddetta “antilope zebrata” divenuta il simbolo della Società internazionale di Criptozoologia e già perseguitata dai bracconieri.
Il fratello Benito ci aggiorna che “in questo momento Antonio si trova in Congo ma, a causa della guerra, non è ancora riuscito a rientrare nella foresta dell’Ituri e sta svolgendo attività di alfabetizzazione in parrocchia. Purtroppo la deforestazione prosegue a velocità impressionante, con la sostanziale complicità dei militari”.
Gianni Sartori (2001)