Morire sul lavoro a 23 anni è uno schiaffo ad un’intera generazione.

L’Italia è, una Repubblica fondata sul lavoro. A far vacillare l’articolo uno della costituzione sono i Governi e la Confindustria, incuranti delle migliaia di morti bianche che ogni anno macchiano la vita democratica del paese. Ultima tragedia è la morte di Matteo Bianchi, operaio stagionale di 23 anni, ucciso da un’impastatrice.
A oggi sono 593 i morti sul lavoro, dato probabilmente inferiore alla realtà poichè non può tenere conto di tutti i lavoratori in nero. La rabbia è il primo sentimento che si prova di fronte queste notizie poichè sembra impossibile che nel 2016, nonostante la massiccia diffusione della tecnologia, spesso utilizzata per controllare i lavoratori, ancora non si riesca a garantire luoghi di lavoro sicuri. La rabbia aumenta quando si realizza che alcuni lavori o gli stessi strumenti tecnologici di gestione e controllo del lavoro provocano danni, spesso irreversibili, alla salute.
Esempi lampanti si hanno soprattutto in ambiti come l’agricoltura, l’edilizia, l’assistenza domestica (per essere più chiari, le badanti) in cui una quota consistente di lavoratori è costretta ad operare senza poter usufruire delle adeguate protezioni, vuoi per mancanza di formazione, vuoi per scelta dei datori di lavoro che puntano a risparmiare sulla pelle dei dipendenti. Tuttavia, la rabbia e l’indignazione non sono più sufficienti. L’arroganza con cui i padroni hanno aggredito i diritti dei lavoratori negli ultimi anni, con il supporto dei governi e di alcuni sindacati fa ben comprendere come sia arrivato il momento di riprendere la lotta collettiva. La nostra generazione è sicuramente penalizzata,rispetto alle precedenti, nella rivendicazione dei propri diritti poichè siamo cresciuti introiettando l’idea che la precarietà fosse la norma e che qualunque lavoro affidatoci sia una gentile concessione, un favore insomma, che il padrone ci fa e dunque dobbiamo stare zitti e muti e pure ringraziare per la possibilità di farci sfruttare per quattro soldi o per una menzione sul curriculum.
La soluzione resta l’organizzazione e la solidarietà tra lavoratori, unita a una buona dose di fantasia per immaginare nuove pratiche di lotta, adeguate a contesti lavorativi che spesso sono molto lontani dalle fabbriche in cui il movimento dei lavoratori è nato, ma ugualmente alienanti.
Dobbiamo creare conflitto per rivendicare un lavoro dignitoso, stabile e sicuro per tutte e tutti, affinché le nostre quotidiane storie di sfruttamento e le tragedie, come la morte di Matteo, diventino solo un ricordo.”

Meggy Martini
Coordinamento Nazionale GC

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