Pier Paolo Pasolini, la verità si dice facendola

pasolini (1)Si scrive troppo, su Pier Paolo Pasolini. Si scrive troppo in generale, e ancora di più su Pier Paolo Pasolini. D’altronde, a chi non piace, Pasolini? A chi non piace il profeta, quello che sapeva i nomi, quello che aveva anticipato Berlusconi e Matteo Renzi, quello che non si piegava mai—quello che, come ricorda un bell’articolo di Wu Ming 1 su Internazionale, veniva perseguitato quotidianamente dalla stampa di destra ma anche da quella “illuminata e di sinistra”? Piace a tutti, Pasolini, e ormai è diventato un’iconcina pop buona per tutte le occasioni, lo troviamo in edicola e in libreria, nelle retrospettive delle cineteche comunali e sui muri del Pigneto gentrificato dagli hipster. Lo troviamo sulle magliette, travestito da Capitan America che dice IO SO I NOMI, come se i nomi non li sapessero tutti, da tempo, e amen. A far problema, però, non sono i gadget o l’apericena—il problema non è il dito, il problema è la luna. Il problema è che si scrive troppo su Pasolini perché le parole su Pasolini (incluse queste) sono tanto diverse dalle parole che Pasolini diceva, scriveva, professava. Anche Pier Paolo Pasolini scriveva tanto, forse troppo, ma le sue parole erano profondamente diverse dalla massa di chiacchiere che ascoltiamo e leggiamo oggi. Erano diverse perché Pasolini, a suo modo, diceva la verità. E allora il modo migliore per ricordare Pier Paolo Pasolini a quarant’anni dal suo assassinio è quello di porsi una domanda semplice semplice: che cosa vuol dire “dire la verità”?

Prendiamola larga. Al di là dei suoi film lenti e difficili e delle faticose poesie, ci piace il Pasolini corsaro e luterano proprio per la sua denuncia, la vox clamans contro il Palazzo, i potenti e la corruzione, l’illustrazione stentorea di un grande processo da catarsi all’italiana davanti agli occhietti di un Enzo Biagi in bianco e nero. Ci piace Pier Paolo Pasolini profeta perché, appunto, è quello che “dice la verità”, una verità paradossalmente valida anche oggi, a quarant’anni dal suo assassinio. L’altro lato, il lato inquietante di Pasolini, viene lasciato da parte. Non parlo, sia chiaro, del lato “oscuro” o presunto tale della sua “vita privata”, le storielle che chiunque lo abbia conosciuto, o anche solo incrociato, si sente in dovere di raccontare, ancora, dopo quarant’anni—“Eh sai, dopo l’incontro Pier Paolo mi chiese dov’erano… insomma hai capito chi… ecco, insomma, poi se ne andò nella notte e non l’ho più visto… d’altronde lui era così”. E giù un altro spritz. Il lato inquietante è fatto delle tante parole con cui Pier Paolo Pasolini immagina un’alternativa all’Italia “degenerata, ridicola, mostruosa, criminale” del boom economico.

Alla vittoria della borghesia come “genocidio culturale” del sottoproletariato. Alle catapecchie tramutate in caverne dotate di televisori. A tutto questo Pier Paolo Pasolini non contrappone “più progresso, più uguaglianza, più democrazia”. No. La sua alternativa nasce da una nostalgia per “l’immenso universo contadino e operaio” che precede lo sviluppo, un rimpianto ripetuto fino alla nausea in una inquietante, e apparentemente ambigua, reificazione dell’“Italietta fascista”. È la nostalgia per un sottoproletariato felice perché consapevole dell’impossibilità di qualsivoglia mobilità sociale e, dunque, entusiasta della propria esclusione da ogni gioco. La glorificazione dell’analfabeta “in possesso del mistero della realtà” contro il giovanotto capellone trasformato in mostro mutante.

Come già negli anni Settanta non piaceva ai troppi intellettuali illuminati fuori e dentro il PCI, questo Pier Paolo Pasolini, di solito, non ci piace, e liquidiamo l’alternativa contadina come una fantasia da poeta, sempre che non la passiamo del tutto sotto silenzio tra un salatino e un penitenziagite! ai presunti difetti altrui. Vada per il silenzio, dunque. Ma davvero qualcuno è convinto che Pier Paolo Pasolini, il colto, raffinato, borghese Pier Paolo Pasolini pensi che il neocapitalismo sia reversibile, che si possa davvero tirare il freno a mano, scendere dalla macchina e tornare indietro a piedi? No, proprio no. Ma allora cosa sta facendo, Pier Paolo Pasolini, quando parla dell’immenso universo contadino? Ecco il punto. Parlando di contadini e sottoproletari inesistenti, Pier Paolo Pasolini dice la verità che sta, al contempo, facendo con la sua vita.

Lungi dall’immaginare una via d’uscita politica o un rovesciamento collettivo del neocapitalismo nel suo passato, Pasolini propone a ogni individuo di trovare un proprio modello di vita stilizzato, una di cura di sé che, nel suo caso, prende quell’immagine come una sorta di verità implicita, l’approssimazione a una rivoluzione da viversi nell’interiorità e nei gesti, nelle lunghe passeggiate solitarie “per le strade povere, dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani”. E allora. La verità si può dire solo facendo la verità, anzi, facendo di se stessi la verità. É l’idea che nelle Nuvole ritroviamo nel dialogo tra Totò e Ninetto Davoli, che nei panni di Otello chiede: “Ma qual è la verità? È quello che penso io di me, è quello che pensa la gente, o è quello che pensa quello là lì dentro?” “Cosa senti dentro di te? Concentrati bene,” risponde la faccia verde di Jago/Totò. “Sì, sì, si sente qualcosa che c’è.” “Quella è la verità… ma sssssh… non bisogna nominarla, perché appena la nomini, non c’è più”. Si scrive troppo, su Pier Paolo Pasolini, perché scrivere la verità è più facile che viverla. E gettare parole su una tastiera è più facile che morire ammazzati di botte. Non che si debba, per forza. Cin cin.

MATTEO BORTOLINI
(Bologna 1971) è un ricercatore di sociologia all’Università di Padova. Ha pubblicato un solo articolo sul rapporto tra Pier Paolo Pasolini e la sociologia italiana su Studi culturali nel 2012

da Wu Ming

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