Noi indignati, loro indegni (parte seconda)

di Simone Oggionni

In questi giorni in molti ci siamo cimentati in un dibattito che aiutasse il movimento a ripartire dopo la botta del 15 ottobre. Colpisce, per una volta, la sostanziale convergenza delle analisi e dei giudizi di pressoché tutte le realtà e soggettività che compongono questo movimento. Una convergenza – mi sia consentito rilevare anche quest’ulteriore dato – che c’è ed è forte anche nel nostro partito e nella Federazione della Sinistra.
In cosa si sostanzia questa convergenza? In tre concetti essenziali: che la manifestazione è stata, in sé, straordinaria (il più grande corteo nel mondo, mezzo milione di persone, unite da obiettivi molto avanzati di alternativa e di critica delle politiche neo-liberiste); che la gestione dell’ordine pubblico nella manifestazione è stata scellerata e – nello specifico di piazza San Giovanni – semplicemente vergognosa; che le azioni di vigliaccheria e di violenza da parte di qualche centinaio di incappucciati sono quanto di più lontano non solo dall’obiettivo della manifestazione, ma anche dall’idea di società e di mondo che abbiamo in testa.
A partire da questi punti fermi, vorrei avanzare schematicamente quattro ipotesi che integrino le premesse su cui tutti concordiamo.
La prima ipotesi che suggerisco è questa: le violenze sono state la conseguenza pratica di una volontà politica: quella di far saltare il corteo pacifico promosso da una serie di soggetti (tra cui il nostro partito) ai quali si imputa una sostanziale subalternità alle logiche del governo e del capitale.
Questa tesi – esplicitata nelle settimane scorse in rete e sui siti di questa parte della galassia antagonista – è appunto una tesi politica. Come tale dobbiamo leggerla e come tale dobbiamo riuscire a batterla, sapendo che ha rappresentato una piccolissima parte di quel corteo, ma sapendo anche che ha avuto la forza di catalizzare su di sé tutta l’attenzione mediatica nei giorni successivi al 15.
Non penso, infatti, che si possa ridurre il tutto a questione di ordine pubblico (certo, le forze dell’ordine avrebbero dovuto e potuto fare diversamente, ma un ragionamento che facesse leva principalmente su quest’aspetto condurrebbe sul piano logico ad invocare ulteriore repressione, tutto il contrario di ciò di cui abbiamo bisogno) né che siano valide le analisi pseudo-sociologiche circolate in questi giorni. Si parla di rabbia sociale. Forse chi non ha dato fuoco alle utilitarie pagate a rate posteggiate in via Cavour è meno arrabbiato di chi lo ha fatto, è meno socialmente a disagio, subisce meno gli effetti della crisi? O forse esiste una composizione materiale e di classe granitica dei soggetti che hanno compiuto quegli atti, tale da definire un blocco sociale (precario, proletario, subalterno) omogeneo? Evidentemente no. Su questo terreno va rimossa ogni ambiguità, che rischia di diventare funzionale al messaggio politico regressivo di cui parlavo prima.
Secondo punto. La rabbia sociale, al contrario, è una cosa molto seria ed ha attraversato, con un livello alto di maturità e coscienza, il corteo nella sua pluralità. Se non si è creato l’effetto contagio e gli episodi di violenza sono rimasti episodi singoli, deprecati ed espulsi dalla stragrande maggioranza del corteo, senza nemmeno trasformarsi – come qualcuno avrebbe voluto – in pratiche embrionali di “riot”, come nel 14 dicembre studentesco, è proprio perché il movimento, nel suo corpo, è più maturo e responsabile della sua testa, dei tanti apprendisti stregoni così come dei suoi presunti gruppi dirigenti, sui quali ultimi insiste la responsabilità – per esempio – di aver consentito una conformazione del corteo che vedesse in prossimità dell’apertura (e cioè in un punto nevralgico) la presenza di gruppi ben poco rappresentativi, totalmente privi di una organizzazione interna e di un servizio d’ordine e ben poco disponibili a rifiutare pratiche e azioni incompatibili con lo spirito della manifestazione.
Terzo punto. Ritengo che vada presa di petto la questione dell’anti-politica e dell’ostracismo nei confronti delle forze organizzate, e in primo luogo nei confronti dei partiti. Questo vento qualunquista, che soffia nel Paese, è giunto sin dentro le riunioni e le assemblee preparatorie del corteo. Non è più accettabile che Rifondazione Comunista, la Federazione della Sinistra e i suoi giovani organizzino circa 200 pullman da tutta Italia (un numero infinitamente superiore a quello di qualsiasi altro gruppo presente in piazza il 15 e paragonabile soltanto a quello delle due centrali sindacali, Fiom e Cobas, organiche al percorso del comitato), garantiscano dal primo all’ultimo minuto la tutela e l’incolumità di migliaia di manifestanti ma siano – in nome di questa maldestra cultura anti-partitica – confinati nelle retrovie del corteo, lasciando allo stesso tempo gruppi ben più esigui, ben meno rappresentativi (e con responsabilità a cui prima alludevo) alla testa del corteo.
Quarto elemento. Dobbiamo capire da dove ripartire. Il rifiuto dell’anti-politica e dell’ostracismo nei confronti dei partiti e delle organizzazioni di massa è un primo punto fermo. Rifondazione Comunista, che non ha né ha mai avuto velleità avanguardiste e si è sempre collocata dentro i movimenti, con una vocazione paritetica che le è sempre stata riconosciuta, è parte del percorso di ricostruzione e di rilancio del movimento. Tanto quanto gli altri, ma non è la ruota di scorta di nessuno. Siamo in campo, e vogliamo moltiplicare le parole e le ragioni del conflitto, come la Fiom meritoriamente si è incaricata di fare venerdì a piazza del Popolo. Ma, soprattutto, vogliamo costruire, su basi nuove, un luogo permanente nel quale si possano ritrovare tutte le forze, le strutture, le reti, i singoli che condividono una prospettiva di alternativa e pratiche coerenti con questo obiettivo. Come a Genova dieci anni fa, quando il movimento riprese la parola soprattutto attraverso i Forum sociali in ogni territorio e sperimentò forme di rappresentanza che misero al centro valori, pratiche condivise e soprattutto i contenuti (efficaci in quanto posti in essere da una massa critica significativa) di un’alternativa possibile al neo-liberismo. Uniti e con le idee chiare: questa è la nostra strada.

SIMONE OGGIONNI

da Liberazione del 23 ottobre 2011

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